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Siamo buoni o cattivi?

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Buoni o cattivi?


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Il sano uso dei ritualismi

Nel Giappone antico, così come in Cina, la politica si trovò a dover decidere due possibili strategie.

Da un lato, partire dal presupposto che l’essere umano è buono, quindi limitarsi ad educarlo con saggezza, con l’esempio, confidando sulla sua interiorità.

Dall’altro, come fanno i dittatori di ogni epoca, considerando la natura umana cattiva ed egoista, quindi con la necessità di tenerla sotto controllo con la coercizione, le punizioni, la violenza.

Gli antichi pensatori cinesi e giapponesi scelsero di credere nella bontà umana. Non si rifecero all’idea di un peccato originale da redimere, anche se riconobbero l’esistenza del male, di una presenza interiore buia che, comunque, doveva essere accettata in quanto facente parte di un’armonia oscura più profonda.

La maledizione divina della colpa non rientrava nel loro modo di pensare e la loro visione etica era animata da una tensione spirituale al fine di dominare le passioni naturali per poi raggiungere la sapienza.

Come soggiogare il potenziale pericolo del buio interiore?

Attraverso la logica dei doveri sociali e del ritualismo, il quale non doveva essere qualcosa di meccanico e abitudinario, bensì un modo per riflettere, meditare e riportare ordine laddove la mente rischiava di essere accalappiata dalle emozioni negative.

Si parla molto del Reiki, qui in occidente, ma non tutti ne conoscono il vero significato.

Il termine Rei, in cinese li, comprende i riti, le cerimonie, ma anche le norme, i modelli di comportamento tradizionale fondati sulla giustizia, la dignità e il rispetto.

Non è una questione religiosa, bensì sociale e umanitaria, anche se in forma ritualistica.

Il rito, infatti, educava ad essere disciplinati interiormente, a controllare gli impulsi istintivi, ad ottenere l’imperturbabilità tipica dell’uomo che possiede un animo nobile.

I saggi orientali non erano sprovveduti, in merito al ritualismo avvertivano il pericolo di perdersi in formalismi banali e senza sentimento, ammantati di ipocrisia.

Confucio, per esempio, così scrisse nei Dialoghi, XVII:

Le antiche norme rituali! Le antiche norme rituali! Sarebbero soltanto offerte di giada e sete? La musica! La musica! Sarebbe soltanto campane e tamburi?

Le manifestazioni rituali dovevano essere sincere, esprimersi in sintonia con lo stato d’animo il quale doveva viverle con partecipazione e consapevolezza, di modo da rendere lo spirito aderente all’ideale implicito nel rito stesso.

Rei, perciò, unito al Ki, energia che tutto sostiene, non è una pratica ad uso formalistico per l’ottenimento di poteri paranormali, non è un capriccio mentale momentaneo esteriore, bensì un sano comportamento autodisciplinato del pensiero al fine di produrre armonia dentro e fuori di sé.

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Autore natyan

natyan, presidente dell’Università Popolare Olistica di Monza denominata Studio Gayatri, un’associazione culturale no-profit operativa dal 1995. Appassionato di Filosofie Orientali, fin dal 1984, ha acquisito alla fonte, in India, in Thailandia e in Myanmar, con più di trenta viaggi, le sue conoscenze relative ai percorsi interiori teorici e pratici. Consulente Filosofico e Insegnante delle più svariate discipline meditative d’oriente, con adattamento alla cultura comunicativa occidentale.