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Pulcinella, Fabio Da’ath e l’esicasmo

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Pulcinella


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Cerco di raccontarvi sempre un sogno perché abbiamo tutti un gran bisogno di farlo. Sono in tanti oggi a essere confusi, perché non ci riescono neanche a occhi chiusi. Se i miei per venire da voi prendono il volo, sicuramente non resto solo.

Sognando rifletto e riflettendo chiedo a me stesso:

‘a verità vurria sapè chi songo, ra arò vengo e arò vaco. Songo ‘e passaggio, so’ furastiere, so’ viandànte. Quanno s’è fatta ll’ora lasso tutto e m’addormo!

Quasi tutte le sere per voi m’impegno e con la mente disegno esperienze oniriche cui, forse, sono indegno. Questa è una notte di magia e vi trasporto con pura energia.

Fabio ed io, consci che le nostre bisacce sono in grado di tracciare il viaggio verso quella direzione che nessuno mai potrebbe porre in discussione, siamo diretti nel mondo dello spiritualismo per incontrare i padri del misticismo.

Abituato a lunghe passeggiate lungo la battigia del mare magnum della mia mente, quando le scorgo, raccolgo quelle pietre particolari che attraggono la mia attenzione e, credetemi, non è raro che me ne ritrovi tra le mani qualcuna che sembra essere molto interessante.

Mentre, come spesso accade, passeggio a Napoli per via Toledo con l’amico Fabio, intravedo, seduti a un tavolo, di un piccolo ma caratteristico ristorante sito in una traversina che conduce alla Galleria Umberto, il mio amico Pietro in compagnia di due suoi fraterni amici.

Pietro, notandoci, attira la nostra attenzione con un efficace gesto della mano, poi, ci prega di entrare, e ci presenta i suoi due amici Nicola e Lorenza. L’uomo, dall’aspetto giovanile, ha modi molto garbati e uno sguardo tanto intenso da giungere subito alle estreme profondità delle nostre anime. La donna, di statura media e dai lunghi capelli castani e fluenti che appoggiano sulle spalle, ha un’espressione vivace del viso, un timbro di voce gradevole e occhi così luminosi che accecano chi li osserva.

Entrambi, resisi conto, dopo le presentazioni del caso, delle nostre bisacce e della nostra voglia di viaggio, stringendoci la mano ci augurano un proficuo cammino. Mentre lo fanno, Nicola, da buon medico dell’anima, immaginando le potenzialità della pietra che stringo nella mano, lasciandosi andare al desiderio, me la chiede.

Comprendendo che anche lui è affamato di conoscenza, senza esitare, gliene faccio prezioso dono. Nel salutarci, compiaciuto, ci irradia di luce, alla stessa stregua della lanterna che, sull’uscio della casa, indica che c’è una consapevolezza dentro.

Illuminati dalla luce dello spirito, ci rimettiamo in cammino sapendo che anche quello che ci accingiamo a portare a termine è un percorso che necessita d’impegno e coraggio.

Giunti a piazza del Plebiscito, individuiamo, da lontano, un uomo seduto sui gradini che conducono al sagrato della Basilica reale pontificia di San Francesco di Paola. Ha una tunica bianca, un mantello nero a ruota intera ed un cappuccio a punta, anch’esso nero. Come d’incanto, mentre ci avviciniamo, una gran luce ci seduce e ci abbaglia: è l’aura dell’astante.

Con il cuore in gola, giungendo a pochi passi da lui, sorge in noi una piacevole ed inaspettata emozione perché ci rendiamo conto che siamo di fronte a Giordano Bruno. Come d’incanto, le nostre menti incontrano le nostre anime.

Il nolano, senza indugiare, oltre, esordisce:

Caro Pulcinella, esimio Fabio, la mia attesa termina qui e ora, perché siete arrivati. Ne sono felice perché desidero introdurvi in un mondo che, oltre ad essere pregno di spiritualità, è sconosciuto a tante persone.

La piazza, improvvisamente, si trasforma in un’incantata e magica oasi spazio – tempo in cui tutto fiorisce e veste di ali i nostri pensieri. Resomi conto che Fabio, emozionatissimo, non riesce ad aprir bocca, prima saluto il nostro interlocutore e poi, a nome di entrambi, gli dico che abbiamo menti per pensare, orecchie per ascoltare e occhi per vedere e che siamo desiderosi di ricevere le sue considerazioni.

Egli, comprendendo che non ho nulla da aggiungere, pronunciando parole che sembrano olio prezioso che scende sulla folta barba di Aronne e rugiada dell’Ermon, che cade sui monti di Sion, afferma:

Cari miei, sono qui per parlarvi della meditazione cristiana, ossia, dell’esicasmo trascendentale perché esso riporta alla quiete, alla pace interiore, alla tranquillità dell’anima.

È necessario premettere che chi lo pratica, mediante sia una tecnica psicofisica, che prevede la gestione della postura, il controllo del respiro e l’esplorazione interiore, sia con l’utilizzo della preghiera del cuore o di Gesù, cerca di ottenere la realizzazione spirituale.

Oltre ad impegnarsi per circoscrivere l’incorporeo in una dimora corporea, cerca di sperimentare l’unione con Dio.

Si adegua all’invito di Gesù: “Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà (Matteo 6,6)”.

Parafrasando l’indicazione “entra nella tua camera”, si può affermare che separandosi dal mondo circostante, si “entra in se stessi”.

Il termine esichia può essere interpretato secondo quattro chiavi di lettura.
La prima consiste nella traduzione della parola hesychia e designa il particolare stato interiore di chi prega. La seconda indica una forma di supplica incentrata sulla ripetizione continua di un’invocazione rivolta al cuore e che concerne un metodo pratico che consente di raccogliere, purificare ed unificare tutte le energie psicofisiche, al fine di sperimentare l’unione estatica. La terza riguarda il movimento monastico dell’Oriente cristiano le cui origini risalgono ai Padri del deserto.
La quarta, inglobando le precedenti, fa sì che l’esicasmo incarni il sistema spirituale che funge da fondamento per l’Oriente cristiano.

Il domenicano, come un’onda che non ha mai fine, prosegue:

L’esicasmo suddivide le preghiere in quattro categorie di valore ascendente: verbale, mentale, del cuore e contemplazione. Partendo da quella verbale, man mano che si sale, la preghiera diviene progressivamente più intima ed introspettiva, quindi, l’orante si separa sempre più dagli stimoli esterni.

Lo stadio di assoluta contemplazione produce una totale assenza di consapevolezza sensoriale, una completa mancanza di pensiero e una pura connessione con Dio.

Le origini risalgono alla tradizione iniziatica degli Esseni, alla scuola esoterica di cui fa parte anche Gesù. Niceforo il solitario, monaco italiano prima cristiano e poi ortodosso, chiamato anche l’Agiorita e l’Esicasta, è il primo autore che diffonde la preghiera del cuore o “preghiera di Gesù”, tant’è che molti lo considerano l’inventore del metodo psicofisico. L’Agiorita inserisce tra i grandi temi di questa tradizione il ritiro dal mondo, il respiro, la ripetizione della preghiera e l’apertura del cuore.

 Niceforo, però, non è l’unico a fissare certi punti fermi, giacché San Giovanni Climaco dice: «Il ricordo di Gesù sia unito al tuo respiro, imparerai la forza del silenzio». L‘esicasta, inoltre, sostiene che la via della perfezione comporti un insegnamento spirituale riservato a pochi, perché nonostante tutti gli uomini siano virtualmente in grado di intraprendere tale impresa, non tutti sono spinti dalla volontà di percorrere in modo costante il sentiero.

Il filosofo, accortosi che la nostra attenzione è consistente, manifestando il suo compiacimento, senza soluzione di continuità, spiega:

Cari miei, l’esicasmo si prefigge la ricerca della pace interiore, l’armonia con il creato, l’unione con l’Uno.
Per parlarvene esaustivamente è necessario che, brevemente, vi racconti la storia del giovane filosofo francese che si reca sul Monte Athos, dove in tanti pregano sospesi su notevoli abissi, per conoscerne i profondi significati e i suoi scopi.

Questi, dopo varie ed infruttuose ricerche intese a conoscere la preghiera e il metodo di orazione, allo scopo di vivere, conoscere dal di dentro la meditazione, non per sentito dire ma per esperienza diretta, decide appunto di andare sul Monte Athos. Spinto anche dal mal celato desiderio di sottoporsi ad un’iniziazione che gli permetta tutto ciò, si reca all’eremo abitato dagli esicasti, gli uomini silenziosi in cerca di quella pace interiore conosciuta come “esichia”.

Padre Serafino, ricevutolo, si rende conto che, seppur lievemente, lo Spirito Santo è incarnato nell’avventore, quindi, sotto forma di consigli, dona le sue perle di saggezza.   

Il primo consiglio: “Impara a meditare come una montagna”.
Nonostante ogni tipo di meditazione richieda un simile approccio, la prima indicazione lascia perplesso il filosofo poiché è difficile restare immobili per diverse ore. Il significato di questo suggerimento consiste nell’apprendere come essere, senza scopo né motivo, alla stessa stregua del monte perché, questo, avendo l’eternità davanti a sé, oltre a non tener conto delle lancette dell’orologio, riesce a percepire il tutto attorno a lei. Il filosofo, riflettendo sulle parole del saggio, inizia a pensare alla necessità di vedere senza giudicare, a comprendere che tutto ciò che lo circonda, ha il diritto di esistere.

Padre Serafino gli dona, quindi, la seconda perla: “Impara a meditare come un papavero”.

Il filosofo inizia a pensare a come il fiore, inseguendo il sole ed orientandosi verso di lui, osservi il creato, il bello, la luce che assegna a ogni cosa il giusto valore.

Grazie alla sete di conoscenza e riflettendo adeguatamente su quelle parole, associa lo stelo eretto e flessibile del papavero a se stesso, quindi, applica la postura del fiore alla sua colonna vertebrale.

Il ragionamento gli consente di imparare a meditare per il piacere di essere e di immaginare la Luce, anziché per scopi personali o interessi. Inizia, quindi, restando immobile, ma flessibile, rivolgendo ogni sua azione e ogni suo pensiero alla Luce e al Bello.

Il monaco, constatato che il filosofo ha fatto proprio anche questo traguardo, passa alla successiva: “Impara a meditare come l’oceano”.

Rendendosi, però, conto che questo tipo di meditazione richiede una spiegazione, gli dice che si tratta d’inspirare ed espirare, fino a essere inspirato ed espirato, in altre parole, bisogna farsi cullare dal respiro così come ci si lascia trasportare dalle onde.

In tal modo si percepisce come una goccia d’acqua, oltre ad identificarsi in se stessa, appartenga all’intero oceano e come questi si coincida con la singola stilla. Chi ascolta attentamente la sua respirazione non è lontano da Dio per cui occorre ascoltare chi giace al limite della sua aspirazione e chi si trova al principio della sua inspirazione.

Padre Serafino, costatato che il filosofo ha agito come prescritto, aggiunge: “Impara a meditare come un uccello”.

Meditare e respirare cantando, con la gola, sia per raccogliere il fiato, sia per mormorare, a mezza voce ed incessantemente, il nome di Dio, così come riportato negli antichi testi e recitare sempre la frase “Kyrie Eleison”, perché riesce a produrre una particolare vibrazione nel corpo e nel cuore, che necessita di essere armonizzata con il ritmo del respiro.

Le nuove parole sono come una doccia fredda per il filosofo. Il religioso asserisce che nonostante non sia molto lontano da praticare come è giusto che faccia, il cammino verso il cuore della preghiera esicasta è ancora incompleto. Egli deve imparare a farlo come Abramo, innanzitutto entrando nella meditazione e nella lode del cosmo, anche perché tutte le cose dell’Universo sanno pregare. Ciò significa risvegliare nell’orante la pace, la luce e l’Amore per tutti gli uomini.

L’individuo rappresenta il luogo dove la preghiera del mondo prende coscienza di se stessa; ha il compito di assegnare un nome a ciò che le creature balbettando lodano. Con la meditazione del patriarca dell’ebraismo si entra in quella nuova e più alta coscienza che si chiama fede, si ottiene l’adesione dell’intelligenza e del cuore sia al creato che al Sé interiore, cioè all’Uno.
Per Abramo, infatti, ciò significa avere sempre il cuore rivolto in direzione di Dio, verso la sua presenza.

Il filosofo, pur soddisfatto di quanto ascoltato e praticato, sente che gli manca ancora qualcosa, o meglio qualcuno: vuole imparare a meditare come Gesù. Di fronte a questa richiesta, Padre Serafino, allargando le braccia e alzandole al cielo commenta che solo lo Spirito Santo è capace di far accedere l’uomo a questo stadio.

Aggiunge poi: “Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Luca 10,22).

Devi diventare figlio per pregare come il Figlio e avere con Colui che Egli chiama suo e nostro Padre, le stesse relazioni d’intimità, e questa è opera dello Spirito Santo. Egli ti ricorderà tutto ciò che Gesù ha detto. Il Vangelo diventerà vivo in te e ti insegnerà a pregare nel modo giusto.

Meditare come Gesù significa ricapitolare tutte le forme finora apprese. Gesù è l’uomo cosmico. Medita come la montagna, come il papavero, come l’oceano, come l’uccello e come Abramo. Il suo cuore, senza limiti, ama persino i suoi nemici e i suoi carnefici.
La notte si ritira a pregare e nel segreto mormora come un bambino “Abbà”, “papà”.
In quel momento un’indicibile luce, espandendosi, unisce Dio all’uomo.

Giordano Bruno, invece, accortosi che l’emozione mi fa tremare come una foglia, appoggiando una mano sulla mia spalla, per tranquillizzare il mio cuore, esclama:

Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via, dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo, dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai.
Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore, dalle ossessioni delle tue manie.

Per non farti invecchiare, supererò le correnti gravitazionali degli Infiniti Mondi, lo spazio e la luce. Guarirai da tutte le malattie perché sei un essere speciale e io, avrò cura di te”.

Come d’incanto, la sua mano e le sue parole riescono a trasmettermi la necessaria serenità e mi fanno percepire uno stato di quiete dopo la tempesta.

Fabio, comprendendo che il pellegrino ha terminato, che io non sono ancora in condizione di commentare e che il nolano è impegnato a calmare la mia agitazione emotiva, intervenendo dice:

Carissimi, penso sia fondamentale che l’uomo, mediante un adeguato stato catartico, visiti la sua terra interiore ed abbia un forte e continuo contatto con il divino interiore.

Una condizione che deve prima condurlo in quel luogo oscuro, che l’individuo vigile e pienamente cosciente non gradirebbe visitare, poi, giocoforza, tenendo conto che per sua natura brama l’elevazione, assecondi il ritorno verso la fonte luminosa; che permettendogli di passare dalle tenebre alla luce, gli consenta di acquisire la desiderata conoscenza.

L’illuminato riesce così a comprendere che sta partecipando attivamente al quel principio cosmico che regola sia le cose del mondo sensibile che degli altri Mondi. Ritenendo la meditazione un potente mezzo per attraversare la soglia della percezione dei Mondi Infiniti, nonostante io sia cristiano, uso praticare l’antico strumento della Chiesa Ortodossa, la pratica esicasta appunto.

Essa consiste in una respirazione che, accompagnata ad uno specifico Mantra, oltre a permettere alla mente di discendere nel cuore e alla luce di risvegliarsi a livello del plesso solare, consente all’orante di entrare in contatto con il Divino: così realizzata, comporta nell’uomo uno stato di grazia, che concentrandosi all’altezza dell’ombelico, risveglia sensazioni di gioia e felicità.

Bruno, intuendo che il nostro amico non intende andare oltre, interviene:

La condizione di cui parla Fabio è quella del cuore, della quiete, del silenzio, della vigilanza e dell’attenzione. Credo che nel nome di Gesù sia contenuta una vibrazione inudibile, estremamente potente ed in grado di far scaturire all’interno del corpo umano, precisamente nel centro sottile corrispondente al cuore, consistenti sensazioni.

Da questa scaturisce una luce simile a quella che gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni vedono sul monte Tabor, identificabile come Energia Divina.

Invocare il nome di Gesù significa richiamarlo all’interno di se stessi attraverso la medesima tecnica che alcuni mistici praticano sul Monte Athos e che consiste, nel mettersi in posizione seduta o a gambe incrociate o anche su di uno sgabello molto basso, e nel poggiare, allo stesso tempo, il palmo delle mani sulle ginocchia.

Se neofita o principiante, per non essere distratto dalle immagini, deve tenere gli occhi chiusi, all’esperto può tenerli aperti. Mentre ci si concentra sull’addome, sulla zona centrale del ventre, si inizia ad inspirare, gonfiando prima le parti basse e poi quelle alte, fino al petto. Nell’inspirazione, attraverso le narici, anziché attraverso la bocca, bisogna evocare Gesù e concentrarsi sul suo nome.

 Terminato questa fase di apparente apnea, si dà inizio a quella in cui si espira lentamente e, al contempo, si chiede perdono. Un’espirazione che consiste in quello svuotamento dell’aria, in precedenza insufflata all’interno del corpo, che permette all’individuo di espellere tutte le scorie contenute all’interno dell’involucro.

Entrambi gli stadi sono accompagnati dal Mantra a cui Fabio accennava, non privo di senso, non vocale, che, anziché essere una ripetizione meccanica del Nome, è una sorta di nutrimento, di una bellezza e di una forza inaudita, poiché consiste nella frase: “Signore Gesù, figlio di Dio abbi pietà di me peccatore”. 

Per portare correttamente a termine la tecnica meditativa bisogna essere continuamente concentrati su ciò che si sta facendo, seguire il respiro ed esserne consapevoli, perché concentrando la mente su una sola idea si potenzia lo spirito, si può arrivare a percepirne la quiete, che si ottiene facendo il vuoto attorno a sé, impedendo che il rumore esterno ed interno interferiscano.

In altre parole, mettendosi al servizio della luce taborica, ci si incammina verso la ricerca dello spirito che alberga in ogni uomo.

Ascoltare il frate domenicano è emozionante, simbolizza la conoscenza ed è una fonte prodiga di parole pregne di sapienza e novità. Egli, notato che sta per avvicinarsi un viandante anziano a lui molto caro, per presentarcelo come merita, smette momentaneamente di imperlarci con la sua interessantissima sapienza.

Il nuovo venuto indossa una tunica bianca e deambula usando sia un lungo bastone, simile a quello di Mosè, che le vibrazioni ctonie, che lui stesso emana.

Non appena ci raggiunge, prima lo saluta molto cordialmente, poi lo presenta in modo formale ma spontaneo. Apprendiamo, così, che si tratta di un pellegrino russo, uno starets ovvero un mistico cristiano. Ha una lunga e folta barba bianca e, per guardare utilizza gli occhi del cuore, anziché quelli deputati alla vista.

Esordisce dicendoci:

Quando viaggio mi accompagno solo con il bastone e la bisaccia contenente la Bibbia e la Filocalia, due importantissimi e santi libri, colmi di profonda saggezza e misteriosi tesori di quella dottrina che alimenta a sufficienza la mia anima, il mio cuore e il mio corpo.

Vi chiedo di dedicarmi un po’ della vostra attenzione perché desidero aggiungere un mattone alle parole del principe degli Infiniti Mondi.

Vorrei che riusciste a comprendere sia l’importanza di quel grido particolare che provenendo dall’intimo, si esprime con “Abba, Padre”, sia il significato di alcuni importanti pensieri ed espressioni quali: “L’uomo nascosto nel cuore”; “La vera preghiera è adorazione in spirito”; “Il Regno di Dio è dentro di voi”; “Lo Spirito intercede per noi con gemiti inesprimibili”.  

Ciò vi permetterebbe di capire il rapporto che, grazie alla preghiera, si instaura tra orante e Divinità. Credo fermamente che chi prega non richiami a sé la Divinità, perché la luce del monte Tabor, che l’esicasta fa scaturire dentro di sé, in realtà è già presente in tutti gli uomini, i quali, dal canto loro, non devono far altro che cercare la luce, lo spirito, che alberga in ognuno, e mettersi al suo servizio.

Non è l’individuo che, tramite la meditazione si appropria di Dio, bensì viceversa.
Non è l’orante che prega la Preghiera, ma dalla essa è pregato, non lui ne vive ma ne è vissuto, non il suo cuore scandisce le divine parole ma ne è divinamente scandito. A tal proposito, ritenendolo di vitale importanza, condivido con voi quanto appena ascoltato nella chiesa alle nostre spalle, ossia il passo estrapolato dalla prima lettera dell’apostolo Paolo ai Tessalonicesi: “Orate senza intermissione. Orate senza intermissione. Orate senza intermissione”.

Il versetto, ripetuto più volte, pur risuonando nella mia mentre come un mantra, non mi chiarisce bene le idee, quindi, domando:

Ho tanto desiderio di capire, ma non ci riesco. Sono certo che lei è un uomo devoto e saggio, perciò, le chiedo di spiegarmi sia il significato delle parole dell’Apostolo “Pregate senza intermissione”, sia il modo in cui ciò si può realizzare.  

Lui, dopo un breve silenzio, guardandomi fisso negli occhi per aprire le porte del mio mondo interiore ed osservare la mia anima, risponde:

Caro Pulcinella, l’orazione interiore ininterrotta è la costante aspirazione dello spirito umano verso Dio. Per riuscire in questo dolce esercizio occorre chiedere più spesso al Signore che ci insegni a pregare senza intermissione. Prega di più e con maggior fervore: l’orazione stessa ti rivelerà in che modo può diventare perpetua, ma ricorda, per questo ci vuole tempo.

Le parole dell’Apostolo si riferiscono all’orazione che nasce dalla mente, si immerge in Dio e lo supplica senza intermissione. Riuscire a tenere la mente sempre immersa in Lui, senza mai distrarsi, pregare senza soluzione di sorta, se non concessa dal Padre, è una cosa difficilissima.

Resosi conto che anche questa spiegazione, non riesce a fugare le mie perplessità, approfondisce:

Bisogna sedersi nel silenzio e nella solitudine, inclinare il capo, chiudere gli occhi, respirare dolcemente e guardare dentro il cuore con un’adeguata immaginazione.

È necessario dirigere la mente, cioè, il pensiero, dalla testa verso il cuore. Mentre si respira, occorre scandire a fior di labbra o anche soltanto con la mente: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”.

È indispensabile avere pazienza, ripetere il più spesso possibile questo esercizio, escludendo ogni pensiero estraneo.

Caro amico, il mondo delle tenebre conduce una continua lotta avversa all’uomo, ma grazie alla preghiera, il buio può essere sconfitto. Non c’è nulla che tema quanto l’orazione del cuore ed è per questo che cerca in tutti i modi di impedirne la realizzazione, provocando, nell’orante, il disgusto per l’apprendimento.

L’oscurità agisce nella necessaria misura e non oltre, ma soltanto previo permesso di Dio. L’umiltà di chi medita è continuamente messa alla prova, perché è fondamentale che questi rispettando i tempi, non anticipi nulla.

Le scorciatoie rappresentano veri e propri ostacoli, infatti, giungendo con eccessivo zelo alla grande soglia del cuore, si corre il rischio di cadere in una sorta di cupidigia spirituale.

Il pellegrino, percependo che le sue parole sono per me, come l’acqua che irriga i campi, aggiunge:

La preghiera interiore e costante del Nazareno incarna quell’invocazione continua ed ininterrotta del nome di Gesù con le labbra, con il cuore e con l’intelligenza, che consente, con certezza, di percepire la Sua presenza in ogni luogo, in ogni tempo e persino durante il sonno. Chi si abitua alla frase “Signore Gesù Cristo, abbiate pietà di me”, oltre a riceverne gran consolazione, prova il continuo bisogno di ripeterla, anzi, dopo un po’ di tempo, non potendo più vivere senza, fa sì che scorra in lui da sola.

Colui che prega, manifesta un ardente atto di volontà, l’esicasta, invece, cerca di ampliare e superare le normali possibilità della sua volontà; il suo impegno è una mano tesa che, nell’oscurità, vuole afferrare una parte della grazia per poterne poi divenire dispensatrice.

Pregare significa gettarsi in quell’arco di luce trasfigurante che congiunge ciò che è destinato a terminare a ciò che avviene e fondersi, completamente, l’arco stesso, perché così, si può beneficiare dell’infinita perfezione divina.

La meditazione esicasta, oltre ad aiutare a raccogliere l’intelletto, conduce al ritrovamento del Sé. La sua efficacia non è frutto del Mantra, bensì della preghiera “di Gesù” o “a Gesù”, perché essendo questa un’invocazione del nome del Signore, raffigura un vero appello al soccorso ed incarna una sorta di richiesta d’aiuto.

San Giovanni Climaco consiglia ai suoi discepoli di usare il nome di Dio contro tutte quelle sembianze del male che possono disturbare l’implorazione: “Non esitare ad andare di notte nei luoghi dove d’abitudine hai paura… Avanzando, armati della preghiera. Quando sei arrivato, stendi le mani. Flagella i tuoi nemici con il nome di Gesù, perché non c’è arma più potente né in cielo e nemmeno sulla terra”.

Detto ciò, tacendo per un attimo, alza lo sguardo al cielo ed afferma:

Gloria e ringraziamento all’Altissimo Padre per la sua misericordia, poiché Egli dispone ogni cosa secondo il suo disegno, sempre favorevole a noi, pellegrini e stranieri su questa terra.

Rivolgendo di nuovo lo sguardo verso di noi, chiede al nolano se voglia intervenire.

Questi, come un atleta che ai blocchi di partenza aspetta che il giudice dia il via, dichiara:

Cari miei, la pratica esicasta è “monologica” perché si fonda sulla ripetizione costante di una breve supplica, il cui fulcro è il Nome del Signore. San Giovanni Climaco ne è un sostenitore, perché ritiene che mentre alcune preghiere, colmando lo spirito di immagini, lo distraggono, quella composta da una o poche parole, lo raccoglie.

Caro Pulcinella, conscio delle tue persistenti perplessità, voglio tentare di essere ancora più esaustivo. Questa meditazione è definita, da alcuni, preghiera kardìa, perché ha il fine di risvegliare il cuore. Anziché causare l’uscita da se stessi, contempla quel “ritorno a sé” che consente sia di ritrovare nel cuore il centro che permette di rimuovere gli orpelli e le zavorre che appesantiscono la sfera mentale, che di comprendere che in questo dimora Dio.

Considerato che la ragione è incorporea, è giusto affermare che il corpo non la ospita alla stessa stregua di un vaso che accoglie il terriccio, ovvero non la contiene esternamente, perché la ragione è congiunta al corpo.

Il cuore, invece, tra le tante funzioni, ha quella di ospitare, perché la sua prerogativa è fungere da recipiente; in esso, infatti, risiedono la mente e i pensieri. Quando vive la grazia di Dio, esso, in quanto organo principale, governa nel modo migliore l’organismo, integra la personalità e congiunge le funzioni vitali con l’attività intellettuale.

Questa tecnica aiuta sia a raccogliere l’intelletto che a condurlo al cuore. Far scendere il nous nel cuore significa pacificarlo, centrarlo, farne l’organo di una coscienza non raziocinante. Tale discesa non rappresenta un movimento fisico spazio – temporale, bensì una vera e consistente integrazione.

L’invocazione del cuore, inglobata nella meditazione esicasta, è principalmente di domanda e pentimento; incarna quel tipo di purificazione ascetica che predispone l’anima all’incontro con Dio e rappresenta il dono che il Signore stesso fa di sé all’uomo. I mistici cristiani, i santi Padri, oltre ad affermare che l’esperienza del divino è un dono e non una conquista, aggiungono che la Preghiera di Gesù è la sintesi di tutto il Vangelo.

L’anima orante è in grado di percepire sensibilmente Dio ed accedere alla luce. Si tratta di un’esperienza che le parole non sono in grado di descrivere pienamente, perché essendo insufficienti, deformanti e povere, non riescono ad esprimere ciò che trascende il pensiero umano.

Giordano Bruno, poi, rivolgendosi a me e a Fabio, sottolinea:

Cari miei, anche l’amico pellegrino sa bene che prima di iniziare a pregare bisogna che tutti i pensieri muoiano, che non si sia schiavi delle preoccupazioni, delle cose irrazionali e di quelle razionali. L’orante, vivendo uno stato di coscienza pura, deve distaccarsi dagli attaccamenti materiali e liberarsi dai legami e da ogni tipo di passione.  

Colui che decide di ritrovare il Sé ha l’obbligo di separarsi dal mondo, l’onere di evitare sia il chiasso che i disturbi ed è tenuto a distaccarsi dalla quotidianità, giacché, allontanandosene, ha la possibilità di entrare nella sfera interiore. Deve sedersi in un luogo tranquillo, chiudere la porta, qualora sia in una stanza, assumere la posizione, elevare la mente sopra ogni oggetto, sia vano che temporale, e, appoggiando il mento sul petto, pregare, meditare e respirare. 

Per raggiungere la meta è tenuto ad esplorare mentalmente l’interno delle sue viscere, perché solo così riesce ad essere centrato e a trovare il punto del cuore in cui dimorano le potenze dell’anima. Infatti, l’attività mentale o attenzione dell’orante, prima si focalizza sull’ombelico e poi, eseguendo un moto circolare, trova alla fine rifugio nel cuore.

Non è in gioco solo l’intelletto, bensì l’uomo nella sua interezza, perché alla trasmutazione partecipano anche le parti grossolane. È basilare tener conto che la mente, una volta giunta nel cuore, trova sia l’oscurità che una durezza ostinata, ma perseverando, notte e giorno, seppur con meraviglia, riesce a percepire una felicità infinita.

Dunque, per fare esperienza del Divino, bisogna zittire il pensiero, creare quel vuoto che consente di aprirsi totalmente a Dio, perché solo così è possibile comunicare senza ostacoli e giungere ad uno stato di trans illuminato dallo splendore della luce taborica. 

Cari amici, è con dispiacere che vi informo che io e il mio amico dobbiamo andare. Io devo occuparmi degli Infiniti Mondi, mentre lui, per divulgare la Meditazione esicasta, deve riprendere il pellegrinaggio.     

Dopo i saluti di rito, ci allontaniamo per rincasare. Nel procedere su via Toledo, ripassiamo davanti al ristorante in cui Pietro, Nicola e Lorenza stanno mangiando. Pietro, attirando nuovamente la nostra attenzione con ampi cenni, ci invita presso di loro. Mentre ci avviciniamo, ci rendiamo piacevolmente conto che i tre emanano consistenti e profonde vibrazioni.

Gli occhi di lei sembrano raggi di sole, idonei a far schiudere i petali dei fiori, mentre quelli di Nicola sembrano fari che, oltre a scrutare l’orizzonte marino, osservano le nostre anime.

Lorenza, rompendo gli indugi dice:

Esimio Pulcinella, desidero chiederti di farmi dono di una delle tue pietre, perché so che sono piene di quell’energia e di quelle vibrazioni che rendono possibile l’esistenza di ogni cosa.

Regalandoci, poi, una gioiosa espressione del viso, con voce nitida, conclude:

Tutto ciò che esiste vive in uno stato di vibrazione che funge da fonte di quell’energia necessaria affinché si intraprenda e si completi il percorso.

Nicola, certo che la sua amica non ha nulla da aggiungere, asserisce:

Caro Pulcinella, conscio che avete poco tempo a disposizione, entro subito in argomento. La tua pietra, oltre ad emanare molte vibrazioni ctonie, possiede una forte carica energetica, ecco perché la cedo a Lorenza, affinché possa regalarle stimolo e sicurezza.

Allo stesso tempo, però, ti chiedo di donarmi qualcosa di ancora più prezioso. Vorrei che mi regalassi ciò che hai dentro, ciò che ti consente di regalare le tue pietre.

Senza indugiare nemmeno un istante, con la grazia e il brio che mi contraddistinguono rispondo:

Caro Nicola, la Magia è un dono che Dio non concede a chi ne è degno o ai così detti eletti, bensì a chi volendo Lui, gli si avvicina. Decidendo di donare il bene da me appena ricevuto, dimostri di avere dentro di te ciò che io ho dentro di me.

Sono certo che anche nel buio della vita tu senta l’essenza della sua presenza.
Il mio regalo è una piccola cosa, ti esorto a continuare il tuo percorso, ad essere così come sei, a non smettere di percepire il profumo della vita armoniosa, dignitosa e fruttuosa.  

‘A sera quanno ‘o sole se nne trase e dà ‘a cunzegna a luna p’ ‘a nuttata, lle dice dinto ‘a recchia: I’ vaco ‘a casa, t’arraccumanno tutt’ ‘e core senza casa e’ l’uommene senza luce.

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Autore Domenico Esposito

Domenico Esposito, nato ad Acerra (NA) il 13/10/1958, laureato in Scienze Organizzative e Gestionali, Master in Ingegneria della Sicurezza Prevenzione e Protezione dai Rischi, Master in Scienze Ambientali, Corso di Specializzazione in Prevenzione Incendi. Pensionato Aeronautica Militare Italiana.