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Ottimo debutto di “#Lavorover40”

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Lavorover40


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Suggestiva rappresentazione della nostra realtà

Ieri, 22 novembre, ore 21:15, presso il Teatro Piccolo Bellini, via Conte di Ruvo, 14, Napoli, ha debuttato con successo l’intensa pièce prodotta da Le pecore nere s.r.l. “#Lavorover40”, liberamente tratta da “La domanda d’impiego” di Michel Vinaver, con i bravissimi Bruno Tramice, Ettore Nigro, Lorena Leone e Clara Bocchino, ottima regia di Bruno Tramice, assistente alla regia Rosario D’Angelo. Lo spettacolo sarà in scena fino a domenica 27 novembre.

Storia toccante, terribilmente attuale nonostante sia ambientata in Francia nel 1970, ma in un certo senso atemporale ed universale; non a caso si apre e si chiude con la stessa presentazione di un colloquio, freddo e impersonale, non importi che cambi chi lo recita, o che sia ambientato 40 anni fa o oggi. Sì perché a chiunque e in qualunque parte del mondo può abbattersi addosso il peso del fallimento, di un licenziamento in età adulta.

E il dover fare i conti con se stessi, con quella conseguente ed inevitabile perdita di dignità che mina l’autostima, sfalda i rapporti familiari e mette tutto in discussione.
La perdita di certezze, il sentirsi continuamente franare il terreno sotto i piedi, il senso di precarietà ed impotenza, come se si fosse in procinto di cadere sull’orlo di un burrone.

E la voglia di gridare al mondo che così non va, la necessità di affermare se stessi, di ribellarsi, ognuno secondo il proprio carattere e la propria inclinazione personale. Perché, alla fine, anche la resa, anche il cedimento, anche la presa di coscienza dell’ineluttabile sono forme di reazione, seppur atipiche e non condivisibili.

Il filo conduttore è una tragedia ben più grande. La famiglia che va in pezzi a causa di un incidente d’auto in cui perde la vita il figlio maschio.
E il padre che si sentirà perennemente colpevole e meritevole di morte per quel sorpasso azzardato, si adagerà, lasciandosi vivere in maniera apatica, incapace di dare un nuovo impulso alla sua esistenza.
Da lì una parabola discendente che, inevitabilmente, porterà ad una serie di interrogativi irrisolti, forse neanche troppo analizzati, ma solo per non sommare sofferenza a sofferenza.

Il collante che unisce padre, Fade, madre, Louise, e figlia sedicenne, Nathalie, è solo apparente.
In realtà ognuno è chiuso nel proprio guscio ovattato alla ricerca spasmodica di una fuga dalla realtà troppo dolorosa da accettare.

Una famiglia composta da tre persone e, in realtà, da tre coppie anomale e disequilibrate.
Marito e moglie, ormai distanti, sono uniti solo da formalismo e convenzione, non c’è più spazio per l’amore. Lo stesso interrogativo di lei, rimasto disatteso, “Mi ami?”, appare più una domanda retorica che un quesito vero. L’importante è salvare le apparenze, che si tratti di un legame affettivo così come di una scarpa lucidata e di un impermeabile perfettamente smacchiato, perché, in fin dei conti, la società si aspetta questo da una famiglia per bene.
L’importante è far finta che tutto vada bene anche se non è vero; perché ogni compleanno va festeggiato con torta e candeline anche se non si è dell’umore giusto, anche se non si ha niente per cui gioire.

Padre e figlia, al contrario, complici e affiatati, si muovono in sincronia in una danza armonica da cui la madre è esclusa. Il loro recarsi a Londra assomiglia più ad un viaggio di nozze, ad un momento intimo di condivisione che ad un tentativo, in realtà mai preso in considerazione da nessuno due, di far abortire l’adolescente che dice di aspettare un figlio da un ragazzo di colore. Ennesimo colpo per una famiglia borghese attaccata alle tradizioni. L’iper-permissivismo verso la figlia non è forse una sorta di compensazione per il figlio che non c’è più?

Tra le due donne, invece, non c’è un dialogo costruttivo, nessun punto in comune, nessun trasporto evidente, solo incomunicabilità. Troppo diverse l’una dall’altra; troppo precisa e petulante Louise, quanto contestatrice e ribelle Nathalie.

Lui, il “colpevole”, esiste d’avvero? Quel figlio sarà veramente in arrivo o è solo un modo per la giovane di attirare su di sé l’attenzione dopo che la morte del fratello ha sconvolto il loro ménage familiare? L’intuizione, giusta o sbagliata non lo sapremo mai, ma in fondo il dubbio è funzionale alla narrazione stessa, l’avrà la madre, la più lucida dei tre, l’unica che dovrà tenere i piedi per terra perché non ha altra scelta.

Tre anime, dilaniate, accomunate da una sfiancante lotta con se stessi prima di tutto e con il mondo poi, con l’illusione di quel cambiamento tanto auspicato ma mai forse cercato fino in fondo.

Eppure, a sprazzi, si intravede un barlume di speranza, o meglio, quell’incendio dirompente che squarcia il buio della coscienza che la figlia scorge per prima e da cui il padre vorrebbe così ostinatamente essere avvolto.

Figlia che si dà agli eccessi, alle rappresaglie con la polizia, alle rapine e che finisce poi per essere ferita ed arrestata. In fin dei conti, la sua è solo una richiesta di considerazione da parte dei genitori da cui prende le distanze solo perché loro le accorcino.

La madre, invece, sembra rifugiarsi in quella torre d’avorio di solitudine come ennesima forma di autodifesa, mentre sarà proprio lei artefice di un cambiamento, di un’autorealizzazione lavorativa che, agli occhi del consorte disoccupato, apparirà ancor più frustrante.

“Papà non lo fare!” è il grido implorante e continuo della ragazza, consapevole, fin da subito, che il genitore è intrappolato in un’esistenza amara da cui non vede via d’uscita se non nel gesto estremo.
Louise, concentrandosi in un impegnativo lavoro su se stessa, non riuscirà a cogliere, o forse soltanto non vorrà notarli, i segnali preoccupanti che lui manda di continuo fino all’ineluttabile.

Sulla scena la triade è costantemente affiancata da un quarto personaggio, apparentemente un semplice responsabile delle risorse umane che bersaglia incessantemente l’uomo di domande troppo personali, troppo intime, decisamente eccessive, logoranti, esasperanti, con lo scopo di far emergere, prepotentemente, le sue contraddizioni, ma soprattutto di metterlo a nudo metaforicamente, ben consapevole che qualsiasi risposta darà sarà quella sbagliata.

Ma, a ben vedere, è una coscienza personificata che si auto-impone, che scandaglia, che sviscera le opposte sensazioni ed emozioni alla ricerca di spiegazioni, di risposte, per provare a lenire, in maniera terapeutica, le proprie angosce, quasi fosse una seduta di psicanalisi, surreale quanto inevitabile nella sua assoluta necessità.

In una sorta di dilagante ed inarrestabile flusso di coscienza il tempo perde la sua connotazione cronologica; gli eventi si sovrappongono, si confondono in un continuo ed altalenante movimento tra presente e passato, mentre il presagio di un futuro funesto resta tangibile, seppur in qualche modo, aleatorio.

Scopriamo così che il quarantatreenne, onesto, leale ed idealista, ha dedicato all’azienda vent’anni della sua vita. All’arrivo di un collega più giovane e sfrontato che ha fatto subito carriera si è adagiato, mettendosi da solo in un cantuccio, isolandosi e leccandosi le ferite per il grave lutto subito. La perdita del lavoro lo ha portato a gettarsi a capofitto in altro, in quella ricerca stressante ed infinita di un impiego che assorbe ormai tutte le sue energie.

E proprio per questo la stessa scenografia, di Francesca Mercurio e Concetta Cervera Caruso, con poltrone, mensole, scrivania, tavolo, sedie, lampade in realtà rimanda più ad un asettico ambiente lavorativo di un ufficio che ad un’accogliente dimora domestica.
Mentre il sapiente disegno delle luci, di Ettore Nigro, enfatizza momenti topici, specialmente i dialoghi tra i due uomini, a volte come se si trattasse di un interrogatorio di polizia.
I costumi, volutamente vintage e proprio per questo eterni, di Alessandra Gaudioso, decisamente in linea con il testo.

La chiave di lettura è nell’attesa. Attesa snervante, infruttuosa, di ricevere finalmente nella cassetta della posta una lettera di risposta positiva che inviti a recarsi ad un colloquio a cui, inevitabilmente, si mentirà pur di cercare di accalappiarsi un lavoro, spesso dequalificante e sottopagato, ma che almeno permetta di uscire dalla condizione umiliante ed infamante di disoccupazione.

Affascinante che il nostro Fage, nato nel 1927 in Madagascar, con la sua anima sognatrice consideri il viaggio verso un Paese altro come un’evasione dalla sua realtà grigia ed inaccettabile.

Bellissimo il passaggio in cui le movenze dei protagonisti con le pipe in mano, collezionate da tutto il mondo dal padre prima e da lui poi, rimandano ad una danza sinuosa e morbida, sovrapposizione reciproca tra interno ed esterno, tra psiche e corpo.
Pipe che rappresentano l’attaccamento alla tradizione, ai valori familiari, la possibilità e il miraggio di rinascita professionale, ma soprattutto umana di quel bimbo, forse, in arrivo.
I bellissimi movimenti coreografici sono di Lorena Leone, tra l’altro ottima danzatrice formatasi in Italia e perfezionatasi all’estero.

Alla fine Fade cede totalmente; la resa è simboleggiata proprio dal suo regalare a dei perfetti sconosciuti le pipe a cui era attaccatissimo. Scambiato per un folle, un uomo mentalmente instabile, viene fermato dalla polizia che prova a capire le motivazioni del suo gesto apparentemente incomprensibile.

Alla fine, l’ultimo abbandono, lo sparo, il suicidio del protagonista, che fa apparire tristemente profetico quel “Papà non lo fare!”.
Arriva, così, un’ultima resa, questa post mortem, con la mano che lascia cadere l’arma mentre la voce incolore di un selezionatore presenta l’ennesima azienda alla ricerca di giovani diplomati e laureati.

Ma in fin dei conti cosa è cambiato? Tutto e nulla!

Ed esattamente come Fade aveva poco prima detto alla figlia “la rivoluzione in senso letterale, si gira e gira per tornare sempre allo stesso punto”, l’azione si svolgerà in eterno sempre allo stesso modo.

Cambieranno i protagonisti, intervistatore e intervistato, ma, a decenni di distanza, i meccanismi rimarranno purtroppo inalterati.
L’ingannevole chimera di un lavoro nobilitante che dia tranquillità psicologica ed economica e sia rispondente alle inclinazioni personali e al titolo di studio, l’ansia e i timori di rimettersi continuamente in gioco a qualunque età con una famiglia da sostenere mentre si lotta con colleghi e capi approfittatori.
L’assurdità della vita sarà sempre la stessa.

Eppure, tra insoddisfazioni e privazioni, la necessità di guardare con ottimismo a quel Paese lontano in cui rifugiarci anche solo con la fantasia.

Uno spettacolo convincente, “#Lavorover40”, che consigliamo vivamente, ricordando che le prossime repliche saranno al Teatro Piccolo Bellini, via Conte di Ruvo, 14, Napoli, dal 23 al 26 novembre alle ore 21:15 e il 27 novembre alle ore 18:30.

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Autore Lorenza Iuliano

Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.