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Rosaria De Cicco incanta in ‘Regine’

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'Regine' Rosaria De Cicco


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Immensa performance dell’Attrice al Teatro Bolivar di Napoli

Giovedì 23 febbraio 2017, ore 21:00, presso il Teatro Bolivar, via Bartolomeo Caracciolo, 30, Napoli, abbiamo assistito con piacere alla pièce ‘Regine’, con una strepitosa Rosaria De Cicco impegnata in un prologo, quattro monologhi e un epilogo su testi di Giuseppe Bucci, Francesca Gerla, Pino Imperatore, Arnolfo Petri e Chiara Tortorelli, per un’accurata regia di Giuseppe Bucci.

Lo spettacolo era il terzo di quattro importanti appuntamenti della rassegna teatrale itinerante ‘Notti Rosa’, ideata e diretta da Gianluca Corcione per l’associazione Fratelli Di Versi, volta a sensibilizzare sulla tematica della violenza sulle donne, il cui ricavato viene assegnato a sostegno di Telefono Rosa, sede napoletana.

Rosaria De Cicco intensa, coinvolgente, viscerale, emozionante in tutta la sua drammaticità, ma anche ironica e disincantata nei momenti più “leggeri” della rappresentazione. Perfettamente calata in ognuna delle parti e soprattutto mai sopra le righe. L’estrema naturalezza con cui riesce in pochi attimi a cambiare i bei costumi di Fabio Geda, selezionati da Francesca Filardo, e ad impersonare un ruolo opposto a quello precedente, la rende sempre assolutamente credibile.

Sguardo fiero, canzonatorio, impaurito o sofferente, a seconda del momento, la De Cicco arriva a calamitare completamente l’attenzione del pubblico con la sua forza espressiva dirompente, con le sue ottime capacità recitative, con il suo carisma, mentre, con una semplicità innata, cambia registro adattandolo allo specifico monologo. E la platea apprezza con calorosi applausi.

Lo spettacolo è un inno alle donne, regine, seppur “decadute”, indipendentemente dalla loro condizione sociale, perché siano sovrane indiscusse del proprio destino, perché l’universo femminile, finalmente libero, non sia più bistrattato dalla violenza fisica, psicologica o verbale di quell’uomo che nulla più conserva di essere umano.

Non tutta la categoria maschile però, ne esce sconfitta. Anzi, sarà proprio un uomo a dare alla protagonista del terzo monologo lo sprone per fuggire via dal suo paese in cui sofferenza e desolazione non le assicurerebbero un futuro e a salvarla, con una robusta stretta, impedendole di essere inghiottita dai flussi marini. C’è speranza quindi, che la solidarietà e il bene sovrastino il male.

Sono rappresentati eccessi, nevrosi, contraddizioni, umiliazioni, fragilità, debolezze di donne portate allo sbando da quella vita così dura che le mette continuamente alla prova con sfide impegnative e dolorose.

La scenografie, curata da Pietro D’Anna, è semplice ma efficace.
Un tavolino che fungerà da appoggio per giocare a carte nel prologo o da sedile in un monologo, una sedia, che più volte nel corso della pièce per esigenze sceniche cambierà posizione, e quattro carte da gioco francesi a grandezza umana che poggiano su dei perni che la stessa Artista farà ruotale di volta in volta che mostreranno, ad ogni monologo, il seme corrispondente alla regina in quel momento rappresentata.

Il rimando ai semi delle carte da gioco francesi sarà evidente anche sul viso e sul corpo della De Cicco.

Le piacevoli musiche che accompagnano la rappresentazione sono di Luca Formicola.

Significativo il prologo, di Pino Imperatore, che segna l’inizio dello spettacolo.
La scena si apre con il Jolly, vestito di nero, con indosso il caratteristico cappello a punte, mentre siede al tavolino impegnato in una partita a carte. Che si vinca o si perda, ciò che conta è proseguire incessantemente nel gioco della vita, indipendentemente dal fatto che ci si adegui alle regole o che si devii il percorso con quell’atteggiamento tipico del giullare di corte a cui è concesso un comportamento anomalo rispetto all’etichetta. Sfruttare a nostro vantaggio ogni opportunità che ci viene presentata, osare, rischiare per migliorare il corso della nostra esistenza. O, almeno, provarci. Ma soprattutto la necessità impellente di ogni donna di essere considerata nella sua essenza interiore e non mero oggetto di possesso da parte dell’uomo.

Il primo monologo, ‘Mena’, di Arnolfo Petri, si ispira a ‘Filumena Marturano’ di Eduardo De Filippo. La protagonista, riccamente abbigliata con una pelliccia, ripercorre il flusso dei ricordi e ci racconta, con profonda amarezza, la sua storia. Nata in una famiglia poverissima in un basso di Porta San Gennaro, si innamora di un violento spacciatore che la lusinga con una vita agiata, ma caduto in disgrazia, le chiede aiuto, sfruttandola e facendola prostituire.
Una vita da incubo in quella casa di tolleranza che la priva della dignità, in cui sporcizia e sudiciume sono reali ma anche simbolici, in cui si lavora per sette ore al giorno, spesso senza neanche avere il tempo di mandar giù un boccone del solito insipido piatto di pasta e piselli. Quando si scopre incinta, incapace di stabilire la paternità del nascituro, si interroga su come apprenderà la notizia il suo compagno, sognando, ma solo per un istante, una vita e una famiglia ‘normali’. Per schiarirsi le idee, si reca davanti la statua della Madonna, dove era solita andare da bambina, e, come alibi morale per la scelta che ha deciso di compiere, si convince di aver udito una voce che le ha indicato di abortire. Che si tratti proprio della Santa Vergine? O forse della madre di Mena?

La regina di Quadri di oggi, ormai, non ha più le caratteristiche materne che contraddistinguevano la Filumena di Eduardo e rinuncia a quel figlio, non senza dolore però.
Nel frattempo, data la vita pericolosa che il suo uomo conduce, lo stesso sarà trovato morto ammazzato nelle campagne del napoletano e, finalmente libera, tornerà in possesso della sua vita, diventando a sua volta raìss della camorra.

Eppure, non rinnegherà l’Amore fino in fondo. In un impeto di nostalgia, si recherà fuori dalla casa natia per lasciare una busta di soldi alla madre, ma vergognandosi di se stessa, non le si paleserà, continuando a sperare che guardi nella sua direzione e la scorga. Non sarà così, però e la donna, trovato il denaro, griderà al miracolo.

Il secondo monologo, ‘È solo una favola’, di Chiara Tortorelli, vede come protagonista una quindicenne, iscritta ai più diffusi social network, ma che trascrive i suoi pensieri più intimi in un diario tradizionale, cartaceo. Ha appena festeggiato il suo compleanno e, come tutte le ragazze della sua età, si sente già adulta ed esperta della vita. Ma non è affatto felice e spensierata. I genitori hanno divorziato da un po’ e il padre si accompagna ogni volta ad una ragazza più giovane e bionda della precedente.

I suoi tormenti interiori non sono solo legati ad una comune crisi adolescenziale, al fatto che il ragazzo che le piace l’ha sedotta e abbandonata, al coetaneo, vicino di casa, con cui litiga per divergenze su gusti musicali e televisivi, o ai flirt in discoteca su cui fantastica per relazioni sentimentali. Il suo disagio è reale e profondo, soffre di anoressia e depressione a causa di abusi da parte del compagno della madre, la quale finge di non vedere cosa stia accadendo. L’uomo la spoglia con gli occhi, le poggia in modo ambiguo le mani sulle ginocchia, le dice frasi inopportune, fino a spingersi ad entrare nella sua stanza senza neanche bussare trovandola in déshabillé ed indugiando con lo sguardo mentre lei è sempre più a disagio.

Come se non bastasse, vedendosi grassa, a dispetto dei suoi 49 kg, rifiuta il cibo, passa giornate intere nutrendosi solo di una mela e pochi cracker, salvo poi correre in bagno presa dai sensi di colpa. Anche stavolta, per l’aspirante attrice di Hollywood, malata di anoressia e regina di Picche, la drammaturgia sfocia in una denuncia dei mali della nostra società.

Il terzo monologo, ‘Io non so nuotare’, di Francesca Gerla, si sofferma, in modo sempre delicatissimo, sui pregiudizi sociali verso una profuga, incinta, costretta ad abbandonare la sua terra per provare a dare un futuro a quel nascituro senza padre. In Somalia viene guardata con disprezzo per la sua condotta sessuale, giudicata riprovevole, mentre è consapevole che altrove le sue coetanee sarebbero libere di intrattenere le relazioni che vogliono senza subire l’onta del disonore.
Una voce fuori campo, cullata dalle onde del mare, ci svela la triste storia di questa migrante che viaggia su di un barcone verso l’Occidente, mortificata dal rifiuto e dall’indifferenza onnipresenti.
Particolarmente ricco di pathos è il momento della nascita di quel figlio del riscatto che vede la luce sul palco e, sbocciando come un fiore, la rende, così, regina di Fiori. D’ora in poi, la protagonista, non sarà mai più sola.

Il quarto ed ultimo monologo, ‘La voce di Laura’, di Giuseppe Bucci, trae spunto da ‘La voce umana’ di Cocteau, e si svolge interamente a telefono. La protagonista viene lasciata dalla sua amata Laura, dopo una relazione segreta durata cinque anni. Seppur il legame sia profondo e vero ed entrambe abbiano fantasticato su quella figlia, Chiara, che avrebbero voluto insieme, sembra che l’amore da solo non basti perché Laura decida di uscire allo scoperto e confessi al marito che in realtà il suo cuore appartiene ad una donna. Il suo desiderio di famiglia ‘regolare’, forse più per non tradire le aspettative della società perbenista che per volontà personale, in un’epoca in cui le unioni civili sono sancite dalla legge e in cui IL diritto personale dovrebbe prevalere sulle convenzioni, rende ancor più straziante quest’abbandono.
La protagonista le mente, dicendole di aver trascorso la classica giornata al lavoro ed essere poi uscita con un’amica, per poi raccontarle, con estrema sincerità che invece è restata a casa, fingendosi influenzata.

Che ne faranno dei regali che si sono fatte a vicenda? Potranno essere buttati via tutti?
La protagonista disperata chiede di salvarne solo uno, il primo, un accendino.
E le fotografie, distrutte anche quelle? Distrutti, dimenticati, come qualcosa di cui pentirsi, vergognarsi, anche i ricordi, i momenti trascorsi assieme? Può un amore puro, fatto di affinità, tenerezze, passione, essere sacrificato sull’altare di ipocriti copioni sociali?
Ci appassioniamo, con empatia, a questa regina di Cuori che, dilaniata, ha tentato il suicidio con una overdose di sonniferi e che giura alla sua Laura che non ci riproverà più.
Accetta la sua scelta, come solo chi veramente ama è in grado di fare, ma le chiede un ultimo regalo, che Laura non chiami Chiara la bambina che aspetta. Qualsiasi nome, ma non quello. Chiara rappresenta qualcosa che sarebbe potuto essere ma non sarà, un surrogato sarebbe stato solo illusorio, ingiusto. Ci sovviene una similitudine tra le due cose chieste, l’accendino e il nome, in qualche modo fanno riferimento alla luce.

Sebbene sappiamo benissimo che dall’altro lato del telefonino non ci sia nessuno, la De Cicco ce lo fa dimenticare immediatamente. Le inflessioni, esitazioni, pause, sono perfettamente calibrate, tanto da farci realmente immaginare la voce di Laura, ci fanno tendere l’udito nell’impossibile tentativo di origliarla.

La chiamata si chiude con la richiesta dell’ultima Regina di non sentirsi più. Troppo doloroso, troppo difficile non spezzare definitivamente il filo.

La voce della De Cicco sale, diventa un grido, un ultimo, intensissimo “ti amo”, un disperato, definitivo addio.

L’epilogo di Imperatore è uno splendido inno alla donna, che passa attraverso nomi famosi, ma che non esclude nessuna, oltre ogni tempo, ogni luogo. Che si tratti di donne divenute scienziate o sante, o di donne il cui nome è rimasto sconosciute ai molti, il filo conduttore è unico.

Né serve né regine: Donne.

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Autore Lorenza Iuliano

Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.