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“Filumena” trionfa al debutto

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Splendida messa in scena diretta da Liliana Cavani

Ieri sera, 13 ottobre, ore 21:00, presso il Teatro Diana ha debuttato con successo lo spettacolo “Filumena” di Eduardo De Filippo, per la regia di Liliana Cavani, protagonisti Mariangela D’Abbraccio e Geppy Gleijeses, affiancati da Mimmo Mignemi, Nunzia Schiano, Ylenia Oliviero, Elisabetta Mirra, Agostino Pannone, Gregorio De Paola, Eduardo Scarpetta, Fabio Pappacena. Scene e costumi Raimonda Gaetani, musiche Theo Teardo, assistente alla regia Marina Bianchi. La pièce sarà in scena fino al 30 ottobre.

Lo splendido esordio è merito non “solo” della genialità del drammaturgo partenopeo e della potenza del testo capace di andare dritto al cuore e smuovere le coscienze, ma anche del grandioso cast che è riuscito ad emozionare, coinvolgere e rapire il pubblico, alternando, in perfetto stile eduardiano, momenti di pathos ad ilarità contagiosa, riflessioni intense a battute fulminanti, dramma a comicità.

Molte volte gli spettatori sovrastano la voce degli attori con risate o bloccano la recitazione con applausi a scena aperta, mentre, a tratti, un silenzio surreale, testimonia, in maniera tangibile, che l’attenzione di tutti è calamitata totalmente verso il palco.

L’assoluto rispetto dell’Autore e dell’Opera, in questa versione di Liliana Cavani, contribuisce ad immergere i presenti in quell’atmosfera commovente e carica di sentimento che caratterizza la commedia tutta, un capolavoro assoluto della drammaturgia moderna.
La lungimiranza della regista nel lasciare alla compagnia un certo margine di libertà nell’interpretazione permette agli attori di offrire al pubblico se stessi e il proprio vissuto emotivo sprigionandone appieno il talento, grazie anche ad un impeccabile utilizzo di comunicazione analogica, divisa tra non verbale e paraverbale.

Il fatto che sia una delle commedie del dopoguerra più allestite al mondo non intacca affatto il piacere dalla rappresentazione. Anzi. Permette di centellinare il più piccolo particolare, soffermandosi, in maniera ancor più attenta, sulle scene, sui costumi e, ovviamente, sulle intenzioni dei personaggi, sugli stati d’animo raccontati, sui movimenti nello spazio, sulla postura, sulla naturalezza dei comportamenti e, chiaramente, sull’impostazione vocale.

Soprattutto nelle prime battute, la strepitosa D’Abbraccio stupisce con un timbro vocale decisamente maturo a dispetto dei 48 anni di Filumena; non si tratta affatto di un errore, piuttosto di una scelta voluta e consapevole per sottolineare che l’azione si svolge in un periodo storico in cui l’età media era più bassa di quella di oggi e aggirarsi sulla cinquantina equivaleva essere quasi al termine della vita.
Giusto il tempo che il messaggio arrivi alla platea ed ecco che la protagonista adegua l’intonazione a quella del resto della troupe, modulando la voce e ritmandola a dovere.

Geppy Gleijeses è un perfetto don Mimì, assolutamente empatico e credibile mentre apprende con rabbia dell’inganno della donna che si è finta moribonda solo per farsi sposare. Raggirato, adirato e consapevole di aver ceduto a quel “sì” solo per realizzare quello che credeva l’ultimo desiderio di Filumena, le scaglia addosso una serie di feroci invettive, mentre, da sciupafemmine incallito, si vede intrappolato in quel matrimonio mai desiderato da quella “strega”, quella “malafemmina” incapace di piangere, assicurandole che scioglierà presto il vincolo per stare con la sua amante Diana.

Da qui inizia a sviscerarsi l’intreccio doloroso e in parte ironico, tipico di ogni tragicommedia che si rispetti, nella sua capacità di introspezione e sofferenza per lanciare un forte messaggio sociale, che il cast tutto inscena in maniera mirabile e mai banale, dimostrandone, ancora una volta la perenne attualità.

Eppure la donna costretta a darsi “alla vita” perché spinta da impellenti necessità economiche, dall’indifferenza della famiglia, numerosa ed indigente, che viveva stipata in un basso in cui non entrava il sole nemmeno a mezzogiorno, non è in cerca di soldi, piuttosto di riscatto e riconoscimento della propria dignità.

In “quella casa”, il casino dove, per anni, è stata costretta a sopportare le risate agghiaccianti degli uomini che l’hanno solo usata, ha conosciuto don Mimì e quando finalmente lui l’ha trasferita in un appartamento, ha iniziato a sperare in un’esistenza diversa, a maggior ragione dopo la morte della moglie di lui.

Poi la convivenza, i continui tradimenti dell’amato, mentre, da perfetta signora, mandava avanti la casa e le attività di Domenico, dimostrando capacità gestionali, concretezza ed intelligenza, mentre lui, girovagando tra Londra e Parigi, si intratteneva con varie donne divertendosi alle corse e sottovalutava il suo operato.

Tutto nella speranza di vedere, un giorno, riconosciuti i suoi sacrifici attraverso un’unione legalizzata.

Lei che si è rifiutata di abortire perché ’e figlie so’ ffiglie, ha seguito i ragazzi a distanza e, tramite un notaio, ha fatto pervenire loro i soldi per campare e formarsi quel futuro e quell’istruzione a lei negati dalla povertà.

Quello che Filumena vuole per sé e per loro è un cognome, ossia tutti i diritti legali che ciò comporta, e l’intensità e la ferma lucidità con cui lo afferma è frutto di una riflessione che dura da venticinque anni.

Confessa all’incredulo e frastornato Domenico che uno dei tre è nato dal loro amore e gli restituisce quella stessa banconota con cui l’aveva pagata la sera del concepimento perché ’e figlie nun se pagano, ma si rifiuta di svelare chi sia per evitare favoritismi perché ’e figlie so’ ffiglie… e so’ tutte eguale.

Ognuno degli artisti è capace di arrivare al pubblico in maniera netta e precisa; anche i ruoli secondari sono delineati in modo approfondito così da lasciare il segno.

Degni di nota, ad esempio, un ammiccare, un rispondere provocatorio, un alzare gli occhi al cielo della fidata Rosalia Solimene, l’eccelsa Nunzia Schiano, eternamente riconoscente verso Donna Filumena che, prendendola a suo servizio le ha garantito una vita dignitosa.

O una difesa strenua quanto inefficace e un tergiversare alla ricerca di una risposta di un ormai stanco ma sempre leale Alfredo Amoroso, il valente Mimmo Mignemi.

O una moina leziosa della giovane amante Diana, l’ottima Ylenia Oliviero, che spera di spodestare presto la donna e prenderne il posto e il suo retrocedere impaurito di fronte alla scoperta dell’“improvvisa guarigione” di Filumena.

O un finto disinteresse e la falsa resistenza alle attenzioni del camiciaio di Lucia, la bravissima Elisabetta Mirra, così come la sua totale obbedienza a Rosalia.

O l’accapigliarsi iniziale dei tre fratelli, Umberto, studente, Riccardo, commerciante, Michele, operaio, rispettivamente i capacissimi Agostino Pannone, Gregorio De Paola ed Eduardo Scarpetta, diversi quanto a carattere, stile di vita e professione, che finiranno poi, per trovare una sana e cameratesca complicità ed abbandonarsi a quel pronunciare, all’unisono, la parola “papà”.

O ancora, un destreggiarsi sapiente dell’Avvocato Nocella tra cavilli legali per poi sentenziare più semplicemente in napoletano, così che Filumena, analfabeta per mancanza di mezzi, possa capire, la nullità del matrimonio, contratto in modo irregolare, invalidato, inoltre, dal fatto che la sposa sia ancora viva, dell’abile Fabio Pappacena.

Sguardi che trasudano di emotività, sentimenti più disparati come paura, risentimento, tensione, amore, premura, dedizione, che arrivano prepotentemente al pubblico regalando un’intensa rappresentazione e restituendoci una messa in scena assolutamente magica.

Domenico, solo, avrà modo di riflettere e riconoscere le immense doti di Filumena e il ruolo che le spetta, mentre sarà, a più riprese, rifiutato. Per dieci mesi si arrovellerà per capire, invano, chi sia suo figlio, ricercando improbabili somiglianze tra sé e loro, fino ad accettarli tutti come suoi: scena semplicemente tenera e godibilissima.

E quando, dopo il regolare matrimonio, i due sposi resteranno i soli, finalmente lei si lascerà andare ad un pianto dirotto e liberatorio perché ora sa cos’è il bene.

La famiglia che vince, l’amore prima di tutto e sopra tutto: “Hai ragione Filumè, hai ragione tu!”

Quando il sipario si chiude gli applausi scrosciano a lungo e parte del pubblico si alza per testimoniare il suo totale apprezzamento; nonostante gli attori, visibilmente soddisfatti dall’ottimo riscontro ottenuto e raggiunti anche dalla regista, accennino ad un commento, occorre ancora qualche minuto perché possano prendere la parola.

Il pensiero e la dedica dello spettacolo vanno a Dario Fo, Premio Nobel per la letteratura scomparso proprio ieri, all’immenso Eduardo che, incomprensibilmente, non ha ottenuto il medesimo riconoscimento, al talentuoso Luca De Filippo, caro amico, che credendo fortemente nella D’Abbraccio le ha concesso i diritti della commedia e alla bravissima Mariolina Mirra.

Il ringraziamento poi, al Teatro Diana che li ospiterà fino al 30 ottobre.

Una rappresentazione, “Filumena”, decisamente riuscita, che consigliamo vivamente.
Per ulteriori informazioni sulle date e gli orari si rimanda al sito del teatro.

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Autore Lorenza Iuliano

Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.