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Intervista a Egidio Carbone, autore della Trilogia della Trascendenza

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Egidio Carbone Lucifero in 'Guado'


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Il geniale e provocatorio sperimentatore si racconta in esclusiva ad ExPartibus

Nel variegato e multiforme universo cinematografico partenopeo c’è un artista che nell’ultimo decennio ha dato vita a un progetto sperimentale.

Egidio Carbone, attore e drammaturgo, fondatore del Teatro AvanPosto Numero Zero, ha sviluppato la ‘Teoria dell’Attore Costituivo’ presentandola e verificandola più volte in ambito teatrale prima di trasporla nella Settima Arte, dirigendo una trilogia di film brevi: ‘Guado‘, ‘Calìgo‘ e ‘Il Mistero di Nylon‘.

La Trilogia della Trascendenza, così definita emblematicamente dall’autore, è un viaggio fisico e metafisico nell’animo umano e nell’ambiente che lo circonda; la narrazione delle opere non è fluida, lo spettatore non viene imboccato da una trama esplicativa, i personaggi sono maschere del surreale, che inseguono la libertà. Lo spazio, il tempo, i luoghi, il corpo e la materia sono gli elementi fondamentali di questi film.

A differenza di ‘Guado’ e ‘Calìgo’, ‘Il Mistero di Nylon’ non è stato presentato in sala per le chiusure imposte a causa dell’emergenza pandemica che stiamo vivendo, ed ha avuto solo un’anteprima virtuale: ma, valicando i confini nazionali, l’intera Trilogia è stata proiettata sul grande schermo in Russia nel corso del prestigioso Festival NICE lo scorso mese di aprile a cui il regista attore è stato invitato a partecipare non solo per mostrare le sue opere, ma per esporre, in una masterclass, il suo progetto sperimentale.

In occasione dell’uscita del capitolo conclusivo della Trilogia della Trascendenza abbiamo approfittato per fare una chiacchierata con Egidio Carbone.

Come spiegheresti in modo semplice, anche per i non addetti ai lavori, la ‘Teoria dell’Attore Costitutivo’?

Immaginate di essere alla più grande mostra di pittura di tutti i tempi. Immaginatevi parte di una folla estasiata al cospetto del dipinto più grande ed emozionante di sempre. Immaginate una tela sulla quale un artista simile a un dio, sia riuscito a dipingere, rispettando ogni ordine realistico, la parte dinamica dell’esistenza a noi visibile ordinariamente.

Un’opera d’arte indescrivibilmente magica, tanto da risultare vera, e in essa scoprire, addirittura, di essere noi stessi ritratti e ogni aspetto del noi, tra sfumature, prospettive e finanche suoni, odori, sensazioni, emozioni, amori, il rumore del mare, il volo degli uccelli, l’alternarsi delle stagioni e del giorno e della notte.

Un dipinto unico, il migliore possibile in rapporto alla capacità dei nostri sensi ordinari, al cospetto del quale ognuno è felice d’essere parte. Un’opera viva che, più che una tela, diventa luogo reale in cui si percepisce di parteciparvi in maniera infinitamente autentica. Ecco, sarebbe questo il momento in cui auspicarsi l’inatteso. Immaginate una brezza diffondersi irriverente tra la folla e seminare un dubbio atroce: quale altro orizzonte esiste oltre l’ombra impedente che quella tela esercita su noi e sull’intera folla?

‘L’Attore Costitutivo’ è l’essenza stessa di questo dubbio, è la scoperta dell’esistenza di fori impercettibili di luce nell’ombra di questa magnifica opera d’arte che è la natura, attraverso i quali è possibile spiare e godere, simultaneamente, dell’oltredipinto e del dipinto stesso. Scrutare prospettive sconosciute, aspetti fantastici, sfumature inedite.

Com’è nata la Trilogia della Trascendenza? Avevi già in mente i film successivi mentre lavoravi a ‘Guado’?

Quando si parte per un viaggio fantastico, si porta sempre con sé una macchina fotografica o una telecamera o un taccuino per fissare sensazioni, emozioni, pensieri. Come se prima di partire per un’avventura nuova fossimo consapevoli del rapporto maledetto che c’è tra esperienza viva e memoria dissolvente. Si convive con la triste sensazione della fugacità delle scoperte e degli eventi e si tende ad esorcizzarla provando, invano, ad imprimere l’esperienza, in qualche modo, nel ricordo.

Fino ad un certo momento, la memoria del mio peregrinare riguardava esclusivamente il teatro. L’idea della trilogia cinematografica Trascendenze nasce proprio nel momento in cui il mio rapporto con la scrittura teatrale cade in crisi. È accaduto subito dopo aver rappresentato ‘La bufaliera’ al Teatro San Carlo di Napoli. Il cinema, o quello che del cinema ho inteso fare io, è stato il mio nuovo taccuino. Poi anche il teatro è ritornato e, adesso, convivono felicemente.

Quando ho immaginato il primo lavoro cinematografico, la mia bussola guida era trascendere dal visibile e ho capito, nel programmare l’avventura, che avrei vissuto un’enormità di sensazioni da annotare. Mi sono dotato di tre taccuini separati, immaginando una trilogia perché più vicina al mio modo d’essere, non ho un rapporto amichevole con la continuità, sapevo che avrei avuto intensi momenti di estasi, separati tra loro dal fondo nero della depressione. Conoscevo l’obiettivo e la rotta, poco potevo sapere degli eventi che avrei affrontato, vissuto e annotato.

‘Guado’ è stato il demone che per primo mi ha rapito e condotto nel cammino. All’inizio, tra noi sembrava esserci completa affinità, ma poi abbiamo discusso bruscamente, litigato senza freni, fino a rompere il nostro rapporto. Allora, dopo poco, è subentrato un secondo demone a farmi da guida, ‘Calìgo’ con cui, però, da subito, ho avuto un rapporto conflittuale, mai stabile, una tensione sempre troppo alta.

‘Nylon’ è il terzo demone che ho incontrato dopo che ‘Calìgo’ sembrava mi avesse abbandonato in un labirinto inevaso, di sabbie mobili. Proprio nel momento in cui ho creduto di essermi definitivamente perso in un’avventura che non immaginavo così avversa e così lunga, mi sono risvegliato a casa, nel mio letto, con l’odore del caffè arrivare dalla cucina. Forse avevo annotato così bene tutto del mio viaggio tanto da scoprire che non ero solo, c’erano tutti e tre i demoni ad aspettarmi per fare colazione insieme.

Ne ‘Il Mistero di Nylon’, a differenza di ‘Guado’ e ‘Calìgo’, fai a meno delle parole; affidi tutto alla potenza delle immagini, all’espressività di Salvatore Cirillo, ai dipinti di Franco Massanova e alla musica di René Aubry: a cosa è dovuta questa scelta?

Quello di ‘Nylon’ e del suo mistero è l’atto finale di un’esperienza altamente invasiva, l’ultimo tassello di un percorso rivelatosi meno facile di quanto avessi pensato. Durante questa esperienza ho provato a spingere me stesso oltre il corpo che ho rinnegato e abbandonato, ho provato a spingermi quanto più possibile alla conoscenza prima dell’anima e poi dello spirito.

Per questo motivo credo io abbia voluto affidarmi al silenzio sempre di più. Un mistero, per quanto svelato, rimane un mistero. Chissà quanto sono riuscito a centrare l’obiettivo, non lo so. Non credo lo rifarei se tornassi indietro ma, visto che amo contraddirmi, sto progettando una nuova avventura, altrettanto imprevedibile. È il senso della ciclicità del divenire che si prende gioco di me.

Hai girato le prime due opere nel Centro Storico di Napoli, in alcuni luoghi suggestivi e dal fascino ambiguo ed oscuro: il lato misterioso della città ti ha ispirato? Quanto incidono il mistero, l’ignoto nei tuoi lavori?

L’intera trilogia si nutre dei luoghi del Centro Storico di Napoli. In ‘Guado’ la narrazione si svela tra posti noti, simbolo sia in esterna che custoditi nelle viscere del sottosuolo. C’era l’esigenza di affidarsi a certezze come quando lo si fa con l’esteriorità. Poi, con ‘Calìgo’, ho ricercato un confine di mezzo tra luoghi noti e meno noti, individuando, nell’ombra, la vera possibilità di illuminarsi.

Infine, ‘Nylon’ svela il suo mistero proprio nel cuore della città, non lontano da dove è accaduto in precedenza per ‘Guado’ e ‘Calìgo’, ma sceglie un luogo indecifrabile, sottoposto al livello strada, nel buio. Lo stesso posto che ho scelto io nel tempo per la mia crescita artistica, il set è stato esclusivamente allestito nel teatro che ho fondato circa sei anni fa in via Sedile di Porto.

È lì sotto che l’ignoto ha scelto di continuare ad essere tale ma, di tanto in tanto, trovare il gusto di persuadermi. A tavola sono un buongustaio, amo il cibo buono e il vino rosso. Oltre al nutrimento, il primo immediato benessere che mi dà il cibo arriva sicuramente dal carattere estetico, capita di dire ‘quanto è bella quella frutta’, prima di poter dire ‘quanto è buona, la mangerei’. Se bastasse questo, però, mi limiterei ad osservarla, invece, qualcosa di ignoto mi spinge ad assaggiare, mangiare.

Cos’è quel qualcosa? È difficile raccontare ad un amico perché quel sapore ci delizia, è molto più semplice trasferire la bellezza estetica di un frutto, basta fare una foto. La mia ricerca tende, appunto, a rappresentare l’ignoto più che l’estetica che, ovviamente, non può mancare. Il sapore più che esclusivamente la forma.

Ho trovato decisamente geniale lo sportello delle ‘informazioni ovvie’ in ‘Calìgo’. Nei tuoi film non manca mai l’ironia, anche se pungente e funzionale all’argomento che tratti. Lo sguardo satirico e irriverente nell’arte è ancora il modo più diretto per criticare il potere, i costumi e le storture della società?

Le virtù della satira sono simili a quelle dell’acqua. Incontenibile, dirama in ogni direzione, penetra, capillarizza, impregna e quando non bagna, protegge, avvolge o distrugge, affoga. Incompressibile, quando inquinata è depurabile, conosce modi, forme e valenze di ogni possibilità e determina sempre un cambiamento. Poi disseta, anche e soprattutto tiene a galla. Lo sportello delle ‘informazioni ovvie’ in ‘Calìgo’ prova ad essere questo, magistralmente interpretato da Fabio Balsamo e da Antonella Elia, rispettivamente l’addetto alle risposte e la fonte delle domande.

Quella parte del film ‘Calìgo’, come altre, carica su se stessa il senso della decifrabilità immediata, del sospiro di sollievo, della radura oltre il bosco, della sosta dopo una corsa a tutta velocità. Contrapposta al resto del film, si trasforma in un momento di semplicità, addirittura didascalica, ma che, in realtà, è maledettamente indefinita, così come gli argomenti che tratta. La satira di ‘Guado’ ha collocazioni sparse e rende il film interamente spigoloso, con una certa continuità di momenti in cui l’immediatezza pungente e il mistero si mescolano.

In ‘Calìgo’ la satira si concede degli spazi autonomi d’irriverenza e, forse, anche di degnazione nei confronti dello spettatore, che ci arriva dopo aver visto altro. ‘Nylon’, fa della satira il suo mistero. Come nel film, la satira è in ogni dove, è per strada, per esempio. Meno frequentemente, quella pura la si trova nei sistemi che la pubblicizzano. Mai come in questo momento di glocale autocelebrazione dell’uomo, può essere efficace e determinante.

Com’è stato il passaggio dal Teatro al Cinema? Qual è il motivo che ti ha spinto ad esplorare la Settima Arte?

Ciò che si osserva vivendo è multiforme, molteplice, sempre difficile da fissare nel tempo. L’arte della rappresentazione è proprio la virtù di riuscire a rendere finito e replicabile, l’infinito e il non replicabile.

Il mio modo costitutivo di farlo sfocia, in maniera naturale, nel teatro e questo non vuol dire che io ci riesca o che ci riesca sempre. Il cinema, pur essendo molto diverso dal teatro, ha con esso infiniti elementi in comune e quindi mi è stato naturale affrontarlo nello studio e nella sperimentazione. Più che una volontà si è rivelata una naturale continuazione.

Surreale, visionario, eclettico: la ricerca sperimentale nelle tue opere è chiaramente in continua evoluzione. Quali sono i tuoi riferimenti in ambito cinematografico?

Sicuramente ho più riferimenti nel teatro che nel cinema. In entrambi i casi, però, non amo circoscrivere ad un artista o ad un’opera le mie preferenze. Mi capita di rivedere pezzi di film o film interi a ciclo continuo, ma poi abbandonarli per lunghi periodi. Accade anche per autori teatrali e opere o poesie. Ripeto, non ho una grande affinità con la continuità. Pensando al cinema italiano attuale è difficile però ricordare qualcosa che mi ha così catturato.

Meglio pensare ad un periodo meno vicino e, a quel punto, posso dire che conosco le sceneggiature dei film di Totò a memoria, le ripeto sempre in alcune circostanze della vita con amici. Forse perché da piccolo lo guardavo sempre, praticamente tutti i giorni. Poi, crescendo, ho scoperto tanto altro, di grandissimi italiani e stranieri. Non mi ostacola il genere o la matrice, ci sono cose che mi colpiscono e cose che ignoro.

Fellini, Monicelli, Leone, Risi e molti altri per parlare degli italiani. Meno il Pasolini regista, adoro di lui il resto. Forse amo un periodo di produzioni cinematografiche italiane più che un regista in particolare. Purtroppo poi è arrivato il periodo dei figli dei maestri, vabbè. Generi differenti sicuramente, da ognuno ho imparato qualcosa. Tra gli stranieri sicuramente sono affascinato da Linch.
È la ricchezza dell’offerta che rende possibile la scelta e la possibilità di crescere.

Da oltre un anno viviamo in una situazione emergenziale che ci costringe a privazioni che non avremmo mai immaginato prima: questo periodo ha cambiato il tuo modo di concepire l’Arte e il tuo lavoro? Hai dovuto modificare o abbandonare progetti che avevi già in mente?

Non ho mai vissuto una situazione che non definirei emergenziale e non mi spaventa. Riconosco che è una visione al limite, così come la scelta di vita che ho praticato e non nego che l’obiettivo è migliorarmi, raggiungere condizioni di stabilità anche economica migliori di quella che, fino ad oggi, per fortuna, mi ha comunque consentito di vivere serenamente e dignitosamente della mia arte.

Non è facile se vuoi mantenere integra la dignità e per motivi molto più banali e pratici di quanto si possa pensare. Per esempio, sono stato contattato da produttori in questo periodo di pandemia, con alcuni ho cominciato collaborazioni interessanti e con altri c’è stato da ridere, forse da piangere.

Mi hanno proposto di mettere in scena alcuni miei lavori, parlo di esperti con curriculum e che producono nomi noti, non gente improvvisata, il problema, però, è che intendevano mettere in scena opere sulla carta, è così che dicono. È un modo gergale che si usa, nell’ambiente, per indicare una procedura ormai consueta, usuale.

Il produttore che ha i requisiti per accedere ai sostegni economici previsti dallo Stato ti inserisce nella programmazione per accedere ai fondi, appunto. Solo una parte minima, esigua, di quei soldi viene poi immessa nel circuito, poche prove per testimoniare il lavoro avvenuto a cui viene corrisposto un rimborso e nessuna replica. Intascano i soldi e il teatro muore.

Anche nel cinema esistono molti film prodotti sulla carta, le opere prime sono terreno fertile in questo senso. La fame rende schiavi e ormai anche molti attori accettano di essere conniventi di questo obbrobrio, accontentandosi di fare voce grossa ma sterile solo sui social. Non è un episodio isolato.

Ci sarebbe molto da dire, per esempio sui teatri stabili, sui festival, sulle rassegne. Sul modo di far sgomitare giovani drammaturghi e giovani compagnie nell’illusione di un premio economico e di un po’ di visibilità. Oltre la fame è anche la vanità a creare schiavi. Giochi di potere e di amicizie, giochi di interesse e vanità e il risultato è sotto gli occhi di tutti. O no?

L’Arte, il Teatro sono altra cosa. Chi controlla tutto questo? Proverò ad accedere anche io ai finanziamenti per produrre realmente le mie opere, se ci riesco lo farò, altrimenti vedremo. A inizio pandemia, invece, sono stato contattato da un sindacato che forse aveva capito che in quel momento c’era terreno fertile per creare adepti, mi sono anche dedicato per un poco a dare suggerimenti ma ho capito che non interessa a nessuno. L’emergenza sanitaria ha necessariamente modificato i miei progetti e i tempi di realizzazione, ma non ho mai modificato i miei ideali, la mia dignità artistica, la mia libertà.

Con AvanPosto Numero Zero hai dato vita ad uno spazio in cui è possibile assistere a rappresentazioni teatrali, rassegne cinematografiche, presentazioni di libri, eventi ed incontri: al netto della prolungata chiusura forzata, causa Covid-19, quali sono le prospettive per luoghi come AvanPosto? Quanto è importante la sopravvivenza di presidi culturali come questo, soprattutto in una città come Napoli?

Il Teatro AvanPosto Numero Zero è uno spazio non ufficiale, nel senso che non rientra nel circuito riconosciuto e, secondo il mio modo di vedere, sta proprio in questo la sua reale preziosità.

Sarebbe meraviglioso se tutto fosse supportato da visioni politiche, economiche e di crescita, perché vorrebbe dire che questo nostro Paese potrebbe ritrovare orizzonti gloriosi e un grado di fascino intellettuale importante. Sarebbe rivoluzionario anche se molti privati cominciassero a crederci e, però, selezionare.

Ma la realtà è altra cosa e quello che rattrista ancora di più è che anche gli operatori dell’ambiente sono spesso acquiescenti e accomodati al confort di un aggancio politico o di un finanziamento facile. Che tristezza! Cosa è accaduto negli ultimi trent’anni di teatro e di cinema in Italia? Vado a rintanarmi nel mio piccolo teatro, grazie infinite per questa chiacchierata e per la possibilità che mi è stata data di esprimermi.

Autore Paco De Renzis

Nato tra le braccia di Partenope e cresciuto alle falde del Vesuvio, inguaribile cinefilo dalla tenera età… per "colpa" delle visioni premature de 'Il Padrino' e della 'Trilogia del Dollaro' di Sergio Leone. Indole e animo partenopeo lo rendono fiero conterraneo di Totò e Troisi come di Francesco Rosi e Paolo Sorrentino. L’unico film che ancora detiene il record per averlo fatto addormentare al cinema è 'Il Signore degli Anelli', ma Tolkien comparendogli in sogno lo ha già perdonato dicendogli che per sua fortuna lui è morto molto tempo prima di vederlo. Da quando scrive della Settima Arte ha come missione la diffusione dei film del passato e "spingere" la gente ad andare al Cinema stimolandone la curiosità attraverso i suoi articoli… ma visto i dati sconfortanti degli incassi negli ultimi anni pare il suo impegno stia avendo esattamente l’effetto contrario. Incurante della povertà dei botteghini, vagamente preoccupato per le sue tasche vuote, imperterrito continua la missione da giornalista pubblicista.