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Tutti sono stati bambini. Anche i Massoni

Massoni


Una lettura leggera e rinfrescante è quello che ci vuole per trovare un po’ di sollievo alla cappa d’afa di questi giorni. Niente di meglio che celebrare il-bambino-che-è-in-noi. Con la speranza di poterlo conservare sempre vivo anche da grandi.

Noi della mia generazione, siamo sopravvissuti al Formitrol, al Vinavil appiccicato alle dita, ai pupazzi di Topo Gigio, alle fialette puzzolenti del Carnevale, al Rim, al Piccolo Chimico, ai barattoli che muggivano, al colorante cancerogeno E123, ai tatuaggi removibili, alla colla Coccoina, alle bustine per fare l’acqua frizzante: l’Idrolitina, la Cristallina, la Salitina M.A., l’Idriz, l’acqua di Vichy. Al View Master, al giradischi di Selezione, al gioco di chi ride prima.

Abbiamo mangiato intere scatole di pastelli a cera fatti di sostanze che non usavano neanche in Vietnam. Abbiamo deglutito chili di dentifricio Paperino’s semplicemente perché era buono. Abbiamo ingurgitato tonnellate di carne agli estrogeni.

La mucca pazza c’era già, allora, era la mucca Carolina. E noi impazziti, impazzivamo per i robot di latta e di metallo che si muovevano e sputavano scintille. Davamo ultimatum alla terra dentro cesti di vimini trasformati in astronavi. Ci siamo massacrati con le autopiste Policar. Abbiamo lanciato migliaia d’aerei di balsa con carica ad elastico. Ci siamo spaccati le mani col meccano. E i polsi con le palle click-clack.

Abbiamo saltato come scemi sulla palla-canguro, abbiamo sognato la bicicletta Saltafoss e la bicicletta Tin-tin Ager sgranocchiando Carrarmato Perugina. Ci siamo tesi agguati con la pistola Oklahoma, sparato a bruciapelo gommini negli occhi e ci siamo spaccati la testa a colpi di fionda. Ci siamo massacrati di schicchere dietro le orecchie.

Fieri e impassibili sfidavamo la sorte: a Viserba di Rimini, negli anni 70, l’impresa più rischiosa consisteva nel mettere una monetina da cinque lire sui binari poco prima del passaggio del treno per farla diventare ovale. Se l’avessero saputo i miei genitori…

Poi arrivava il momento del gelato: io avrei voluto granite, ricoperti, Coppe Smeralde o schifezze del genere per strafocarmi in santa pace. Ma il Dottor No, la mamma, perfida e inflessibile, muoveva come un tergicristallo l’indice della mano destra e con tono perentorio decretava:

No, no, questi sono i soldi, vatti a comprare un Camillino.

Chissà perché era convinta che il gelato al biscotto facesse meno male… Forse anche lei era vittima di una delle primissime leggende metropolitane… la storia, appunto, che il gelato al biscotto faceva meno male…

Di tutto quel tempo cos’è rimasto oggi?

Non certo Braccobaldo o le colonie estive o la tessera del Club di Topolino o il cavallo di ghisa del barbiere. Di quell’enorme montagna d’oggetti, sono rimaste pochissime cose: la penna Bic, il Buondì, la Nutella, il Ciocorì e Orzoro.

Ma soprattutto tante canzoni, le canzoni che, accompagnandoci sin dall’infanzia fino alla nostra crescita, ci hanno emozionato e formato. Pezzi di vita che ci sopravvivono e ci sopravvivranno. Se qualcuno le ricorderà, se qualcuno le canterà. Le canzoni ‘impegnate’ dei cantautori, ma anche quelle di Mogol – Battisti, hanno favorito il transito dal pensiero magico dell’infanzia verso un pensiero creativo – immaginifico e poi esistenziale. A volte persino verso orizzonti sacrali, per chi era dotato delle giuste qualificazioni. E sapeva vedere e sentire ‘dentro’ ed ‘oltre’ il suono della parola – simbolo.

Per tirare le somme, utilizzerò piccole e grandi, banali e altissime, parole di canzoni e canzonette. Insieme costituiscono un magico alfabeto, un aforismario: ho visto la gente della mia età andare via lungo le strade che non portano mai a niente. Cercare il sogno che conduce alla pazzia nella ricerca di qualcosa che non trovano. Insomma bisogna saper perdere! Non sempre si può vincere. E quando cade la tristezza in fondo al cuore, come la neve non fa rumore. Volente o nolente chi non lavora non fa l’amore… e al giorno d’oggi è sempre più vero.

Già da allora, esotericamente parlando, smarrirmi in questo bosco volli io per leggere in silenzio un libro scritto ad est. Col cuore di simboli pieno, io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai, amore che vieni, amore che vai. Ho sempre condiviso l’affermazione che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior. Basta ricordarsi dove andava a trovare gli Apostoli Gesù…

C’è un altro verso geniale di De André che spesso mi ritorna in mente: pensavo è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra. D’altra parte non c’è niente di più triste, in giornate come queste che ricordare la felicità sapendo già che è inutile ripetere: chissà? Domani è un altro giorno si vedrà.

Mi avvio a conclusione dando del tu al lettore: forse questo ti sembrerà strano ma la ragione ti ha un po’ preso la mano ed ora sei quasi convinto che non può esistere un’isola che non c’è. È proprio vero: nella mia fanciullezza incantata a Forlì, tra il fiume e le prime colline, sulle Biciclette verso Casa la Vita ci sfiorò, ma il Re del Mondo ci tiene prigioniero il Cuore. Nonostante tutto, nel procedere isterico dei giorni, fra clamori e pause, tra aggressività e volgarità quotidiane, nel silenzio della notte, nella nostalgia del mio spirito smarrito spero che ritorni presto l’Era del Cinghiale Bianco.

Autore Hermes

Sono un iniziato qualsiasi. Orgogliosamente collocato alla base della Piramide. Ogni tanto mi alzo verso il vertice per sgranchirmi le gambe. E mi vengono in mente delle riflessioni, delle meditazioni, dei pensieri che poi fermo sul foglio.

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