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Splendida rappresentazione di ‘Amore… non buttarti giù’

‘Amore… non buttarti giù’ ph. Tiziana Mastropasqua


Imperdibile opera dal retrogusto amaro

Ieri, 11 marzo, ore 21:00, presso il Teatro Bolivar, via Caracciolo, 30, Napoli, abbiamo assistito con piacere allo spettacolo ‘Amore… non buttarti giù’ di Lucio Allocca, liberamente ispirato a ‘Luv’ di Murray Schisgal, con gli ottimi Rosario D’Angelo, Ettore Nigro e Loretta Palo per la splendida regia di Lucio Allocca. Costumi Giovanna Napoletano. Scene Tiziana Scialò. 

Un’altalena continua di sensazioni contrastanti, un testo impegnato, denso, ricco di spunti, che lascia riflettere ben oltre le due ore di rappresentazione, strappando sonore risate intrise di sarcasmo.
Del resto, lo stesso Murray Schisgal, storpiando Amore in ‘Luv’, sintetizza, già nel titolo, l’essenza della sua commedia, un baratto utilitaristico tra persone più che un reciproco dono di emozioni. La comicità che ne scaturisce, sottile e sofisticata, rimanda, di continuo, alla visione di quella società nevrotica e frammentata tanto cara a Woody Allen.

Illusione, realtà, realtà illusoria o, piuttosto, illusione disillusa si alternano, sapientemente, negli animi dei protagonisti alla ricerca costante della loro personalissima insaziabile utopia.

Ricerca è, appunto, una delle parole chiave del testo.
Ricerca di sé, del proprio posto nel mondo, del significato stesso dell’esistenza anche attraverso il viaggio nelle culture più disparate, meravigliosa metafora del tentativo irrealizzato della conoscenza del proprio io, quella sola consapevolezza capace di sedare le ataviche domande di uno spirito inquieto. Ricerca del senso supremo, forse più sublimata che concreta, che si traduce più opportunamente in un non-sense.

Tre personaggi accomunati da un’infanzia difficile e anaffettiva che li ha segnati profondamente e che cercano una propria ancora di salvezza, una via di riscatto, per poi ricadere, inevitabilmente, in modo più o meno consapevole, in un nuovo sterile abbaglio.

La rappresentazione inizia nell’unico luogo in cui si svilupperà tutta la vicenda, un ponte desolato con sullo sfondo la città di New York. Henry sta scrivendo quella che dovrebbe essere la sua lettera di addio, prima di togliersi la vita buttandosi giù. La sua ricerca di un senso è stata vana, per quante strade abbia provato a percorrere non è riuscito a farne veramente sua nessuna.

Proprio la mancanza di qualcosa in cui credere gli causa diversi e momentanei disagi: afasie improvvise, nella sensazione che le stesse parole diventino vuote, prive di significato; cecità istantanee, probabili interruzioni di contatto con una realtà esterna percepita come ingannevole; paralisi fulminanti, in cui abbiamo letto la coscienza dell’estraneità del suo stesso corpo.

A distoglierlo dai suoi piani è Milt, un vecchio compagno di accademia che, come secondo mestiere, commercia in cose usate recuperate personalmente dalla spazzatura; è quest’ultimo a riconoscerlo. Partendo dall’idea di suicidio dell’amico elabora una strategia.

Il suo matrimonio con Ellen è allo stremo, ridotti come sono ad una coppia ormai incapace di empatia, che condivide solo il tetto coniugale ma non i sogni. Milt ha un’altra donna, una collega di lavoro con cui si illude di avere un’affinità elettiva, di cui si dice innamorato.
Nella consapevolezza che la moglie non gli concederà mai il divorzio, era arrivato alla determinazione di vederla quella notte, proprio su quel ponte, per ucciderla.

Ma adesso la soluzione più indolore diventa quella di gettarla tra le braccia di Henry, con cui, potenzialmente, ha più interessi in comune, più punti di contatto, l’amore per lo studio, per la letteratura, per la chitarra.

Henry prova ad afferrare l’ultima possibilità di trovare un senso; ci mette poco a conquistare Ellen, in un fitto gioco di citazioni reciprocamente riconosciute.
È la stessa donna a chiedere il divorzio al marito, le cui ipocrite resistenze durano poco.

Il primo atto termina, dunque, con due sogni possibili, due coppie che, almeno da quello che si sembra intuire, hanno realmente possibilità di una relazione stabile, soddisfacente.

Il secondo atto segna una rottura netta; la stessa pausa appare drammaturgica, evidenziando perfettamente la cesura tra diverse posizioni di illusioni e la realtà narrata.

Irrompe il discorso di Martin Luther King, ‘I have a dream’, spezzato, però, dal rumore degli spari, dalla disperata quanto inutile sirena di un’ambulanza. I sogni sono infranti. Mentre nel primo atto la copertina di una rivista celebrava l’ascesa del leader, nel secondo atto un’altra ne annuncia l’omicidio.

Milt ed Ellen si ritrovano sullo stesso ponte, che finisce per rappresentare un non luogo, un tramite verso un qualcosa che non sarà mai raggiunto, che, in qualche modo, ricorda l’ambientazione dell’’Aspettando Godot’ di Beckett. Sono entrambi cambiati, iniziano la conversazione spiegando come la loro nuova situazione sentimentale sia idilliaca. Ma anche questa è finzione.

Il primo a crollare è Milt. La sua Linda lo ha lasciato solo tre giorni prima. Disperato, confessa come la storia non sia mai decollata, come la crisi matrimoniale abbia ben presto soppiantato l’inganno d’amore.

Ellen, incoraggiata da queste rivelazioni, non tarda a raccontare anche la sua frustrazione. Henry è sempre più apatico, alle prese con le sue perdite di contatto con la realtà, non esce di casa e colei che è diventata sua moglie è costretta ad occuparsi di lui come se fosse un bambino. Ciononostante la sua intenzione è ancora di rimanergli accanto. In fondo le resta ancora qualcosa da poter simulare, magari anche solo un surrogato di quella maternità che pure desiderava.

Milt, invece, non ha illusioni in cui rituffarsi, non gli resta altro che provare a ritornare con la sua ex moglie. Le rispettive insoddisfazioni fanno da facile base per un nuovo miraggio di vita comune. Il solo problema è quello di sbarazzarsi di Henry. Torna la pulsione omicida.
Nel primo atto anche Ellen aveva raccontato ad Henry che, essendo a conoscenza del tradimento del marito, era giunta sul ponte armata di un coltello per ucciderlo.
Cambia solo la vittima, che, per questa volta, mette tutti e due d’accordo.

Le riluttanze della donna, i suoi scrupoli non durano molto. Quando giunge Henry, attirato da Milt per un appuntamento in cui gli avrebbe restituito il prestito di una somma ridicola, lei gli rinfaccia il fallimento del loro matrimonio che si scoprirà mai consumato.

Milt, prima di provare a buttare giù dal ponte il suo vecchio compagno di classe, tenta l’espediente che gli era già riuscito in precedenza, proponendogli di conoscere Linda. Henry rifiuta senza nessuna esitazione. Paradossalmente, anche se solo per un attimo, è più propenso a prendere in considerazione l’ipotesi di una sua possibile omosessualità. Aveva già tentato di vivere un senso eterodiretto, una finzione che non gli apparteneva. Per questo non aveva nemmeno provato la scossa dell’infatuazione iniziale. Per questo, quando Ellen lo accusa di non aver mai vissuto alcun momento bello insieme, si appropria di un episodio divertente vissuto, invece, dalla prima coppia. Mentre gli altri due si accontentano di chimere, Henry cerca un senso autentico.

Allocca dà prova delle sue indubbie capacità brillanti negli esilaranti quanto amari tentativi di uccidere Henry, durante i quali, per mosse maldestre di Ellen o di Milt, è proprio quest’ultimo a finire più volte in acqua.

Il finale è incredibilmente amaro. Quasi nichilista. Henry si arrende, lascia andare Ellen quando lei sceglie Milt, quando gli dice in modo secco e brutale di non averlo mai amato.

Ma il futuro che trapela dal ricostituito ménage familiare non ci sembra roseo. La donna, pur avendo coltivato il sogno del riscatto attraverso lo studio, si adegua ad una prospettiva borghese, quella di aspettare a casa il marito cui preparare la cena, con dei figli da allevare. La sconfitta ancora più dura è quella di Milt. Non avendo altra scelta che tornare con la ex moglie, consapevole che i vecchi schemi avrebbero portato allo stesso insuccesso, accetta di annullarsi, di rinunciare alla sua smania di rivalsa sociale, di accumulo di denaro, assecondando quello che, in definitiva, è l’ideale di Ellen.

Henry resta solo. In lontananza sente l’abbaiare di un cane, lo stesso che anni prima in un parco, urinandogli sui pantaloni, aveva scatenato la sua crisi. Chiara metafora di una definitiva rinuncia alla speranza di trovare un senso, un qualcosa in cui credere.

Gli applausi sono scroscianti. Le interpretazioni sono state davvero convincenti, mai sopra le righe. Apprezziamo l’innata verve di Rosario D’Angelo, la presenza scenica e l’intensità di Loretta Palo, il talento di Ettore Nigro, eccezionale anche per le capacità mimiche.
I tre attori mostrano una particolare abilità nel rendere lo spiccato spirito clownwsco già presente nel testo originario e piacevolmente accentuato dalla scrittura di Allocca.

Ma anche e soprattutto la regia e l’adattamento di Lucio Allocca. Il lavoro di Allocca, oltre le tante e continue risate in cui ci coinvolge in tutta la rappresentazione, sfocia in un’opera “dura”, che, dietro un’ironia amara, cela una profonda ed articolata chiave esistenziale. Prima di delinearne un racconto la dobbiamo metabolizzare, decodificando ed incastrando i vari tasselli di un mosaico estremamente affascinante, complesso e multicolore.

Un’opera dal retrogusto amaro che ci ha colpito positivamente e che ci sembra assolutamente imperdibile. Prossimo appuntamento con ‘Amore… non buttarti giù’ è oggi, 12 marzo, ore 18:30, presso il Teatro Bolivar di Napoli.

Foto di Tiziana Mastropasqua

Autore Lorenza Iuliano

Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.

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