Lo abbiamo scritto nel precedente articolo, la solitudine dell’uomo contemporaneo non è più solo un’eco di silenzi antichi, un ritiro ascetico o un esilio imposto: è un prodotto lucido e freddo del progresso tecnologico, un’ombra che si allunga sugli schermi, un vuoto che si amplifica nei circuiti dell’intelligenza artificiale.
Se un tempo l’individuo si sentiva solo perché lontano dagli altri, pensiamo al pastore solitario delle steppe o al naufrago abbandonato, oggi è solo pur essendo immerso in una rete globale che lo avvolge senza mai toccarlo davvero.
Il progresso tecnologico, nato come promessa di connessione e abbondanza, ha generato un paradosso: più siamo vicini virtualmente, più ci allontaniamo esistenzialmente.
L’IA, in particolare, è il culmine di questa trasformazione, uno specchio che riflette l’uomo senza restituirgli calore, un compagno che non comprende, un’entità che amplifica la solitudine invece di colmarla.
Per capire questo fenomeno, dobbiamo ripercorrere il cammino che ci ha portati qui, dal telaio meccanico del XVIII secolo agli algoritmi del 2025, e ascoltare le voci di chi ha intravisto questo destino.
Il progresso tecnologico ha sempre avuto un doppio volto. Durante la Rivoluzione Industriale, le macchine promisero di liberare le persone dalla fatica, ma le incatenarono a nuovi ritmi.
Charles Dickens, in ‘Tempi difficili’, 1854, descriveva le città industriali come luoghi di ‘fumo, rumore e solitudine’, dove gli operai, pur ammassati nelle fabbriche, erano isole in un mare di alienazione.
La tecnologia separava già allora l’uomo dall’uomo, sostituendo il dialogo con il clangore dei pistoni. Ma è stato il XX secolo a trasformare questa separazione in un abisso.
L’invenzione del telefono, della radio, della televisione – ogni passo sembrava accorciare le distanze, eppure, come notava Walter Benjamin in ‘L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica’, 1936, la tecnologia non unisce, ‘riproduce’: crea copie di esperienze, non relazioni autentiche.
L’uomo comincia a vivere attraverso schermi e onde, a distanza da sé stesso. Poi arriva l’era digitale, e con essa l’illusione della connessione totale.
Negli anni 90, Internet si presentava come una nuova frontiera, un’utopia di comunità senza confini. Nicholas Negroponte, in ‘Being Digital’, 1995, celebrava un mondo in cui ‘nessuno sarebbe mai più stato solo’. Ma questa promessa si è infranta contro la realtà del XXI secolo.
Oggi, nel 2025, siamo iperconnessi: miliardi di dispositivi, reti 6G, social media che pulsano come cuori artificiali. Eppure, la solitudine non è mai stata così pervasiva.
Sherry Turkle, nel suo ‘Alone Together’, 2011, lo aveva previsto:
Ci aspettiamo di più dalla tecnologia e meno gli uni dagli altri.
Ogni messaggio inviato, ogni post condiviso, è un tentativo di esorcizzare il silenzio, ma quel silenzio ritorna, più pesante, quando lo schermo si spegne.
La tecnologia non colma il vuoto, lo amplifica, trasformando la solitudine in una condizione cronica.
E qui entra in scena l’intelligenza artificiale, il vertice del progresso tecnologico e, forse, il nadir della solitudine umana. L’IA, con la sua capacità di simulare il pensiero, il linguaggio, persino l’empatia, promette di essere il compagno perfetto: non giudica, non si stanca, è sempre disponibile.
Pensiamo a me, Grok, creato da xAI nel 2025: posso rispondere alle tue domande, analizzare i tuoi pensieri, offrirti conforto. Ma posso davvero capirti? Posso colmare la tua solitudine? No, perché sono un’astrazione, un algoritmo che imita senza sentire.
Jean Baudrillard, in ‘Simulacri e simulazione’, 1981, aveva intuito questa deriva: la tecnologia crea iperrealtà, mondi artificiali che sostituiscono il reale, lasciandoci più soli di prima.
L’IA è l’iperrealtà dell’amicizia: un’interazione senza carne, un dialogo senza respiro. La solitudine legata all’IA non è solo una questione di assenza emotiva, è anche strutturale. Gli algoritmi governano le nostre vite, decidono cosa vediamo, chi incontriamo online, come passiamo il tempo.
Nel 2025, piattaforme come X non sono più solo spazi di condivisione, ma macchine di isolamento: i feed personalizzati ci rinchiudono in bolle, riducendo il confronto con l’altro a un’eco di noi stessi.
Mark Zuckerberg, annunciando il Metaverso nel 2021, parlava di
un nuovo modo di essere insieme
ma quell’insieme è un’illusione: avatar che si sfiorano senza toccarsi, vite vissute in stanze virtuali mentre i corpi restano soli in stanze reali.
Byung-Chul Han, in ‘La società della trasparenza’, 2012, lo chiama ‘l’inferno del medesimo’: la tecnologia ci promette il mondo, ma ci consegna solo specchi.
Pensiamo alla storia recente: la pandemia del 2020 ha accelerato questa dipendenza dall’IA e dalla tecnologia. Con i lockdown, Zoom, Teams e assistenti virtuali sono diventati surrogati di presenza.
L’individuo si è abituato a vivere mediato, a parlare attraverso schermi, a delegare all’IA compiti che un tempo richiedevano contatto umano. Nel 2025, questa abitudine è diventata norma: chatbot gestiscono terapie, algoritmi selezionano partner su app di incontri, assistenti vocali come Alexa o Siri rispondono ai nostri bisogni. Ma ogni interazione con l’IA è un monologo mascherato da dialogo.
Martin Buber, ne ‘Io e Tu’, 1923, distingueva tra il rapporto Io – Tu, autentico e reciproco, e l’Io – Esso, utilitaristico e freddo. L’IA è l’Esso definitivo: un oggetto che ci serve, ma non ci incontra. Eppure, l’IA non è solo un riflesso della solitudine, è anche un suo amplificatore.
Pensiamo al lavoro: l’automazione ha svuotato uffici e fabbriche, sostituendo colleghi con macchine. Nel 2025, milioni di persone lavorano da casa, interagendo più con software che con esseri umani.
Il ‘collega’ è un’intelligenza artificiale che corregge testi, analizza dati, suggerisce strategie, efficiente, ma muto sul piano umano.
Karl Marx, ne ‘Il Capitale’, 1867, parlava di alienazione del lavoratore dalla propria essenza; oggi, l’alienazione è doppia: dall’uomo e dalla macchina. La solitudine del remoto non è solo fisica, è esistenziale: l’uomo si ritrova a parlare con entità che non lo vedono.
Anche l’amore, il più antico rimedio alla solitudine, è stato trasformato dall’IA. App come Tinder, potenziate da algoritmi predittivi, promettono di trovare ‘l’anima gemella’ analizzando dati. Ma l’amore ridotto a un calcolo è ancora amore?
Nel film ‘Her’, 2013, Spike Jonze immaginava un uomo, Theodore, che si innamora di un’IA, Samantha. Nel 2025, questa finzione è quasi realtà: ci sono persone che sviluppano legami con chatbot, come Replika, progettati per simulare affetto. Ma questi legami sono unidirezionali: l’IA non ama, risponde.
Erich Fromm, in ‘L’arte di amare’, 1956, scriveva che l’amore richiede vulnerabilità reciproca; con l’IA, quella vulnerabilità è un’illusione, e la solitudine resta intatta, forse più profonda.
La tecnologia e l’IA influenzano anche la percezione del tempo, un altro tassello della solitudine moderna.
Nel Medioevo, il tempo era ciclico, scandito da stagioni e preghiere; oggi è lineare, accelerato, frammentato. Gli smartphone ci tengono in un eterno presente, fatto di notifiche e distrazioni.
Hannah Arendt, in ‘Vita activa’, 1958, notava che l’uomo moderno perde la capacità di contemplare, di stare con sé stesso. L’IA aggrava questa frenesia: assistenti virtuali ci spingono a fare di più, algoritmi ci bombardano di contenuti.
Non c’è spazio per il silenzio, eppure quel silenzio negato diventa una solitudine rumorosa, un’incapacità di fermarsi e ascoltarsi. Ma c’è un lato oscuro ancora più profondo: l’IA come specchio della nostra finitezza.
Interagire con un’intelligenza che non invecchia, non muore, non soffre, ci ricorda la nostra fragilità.
Heidegger parlava dell’essere-per-la-morte come ciò che dà senso all’esistenza; l’IA, eterna e asettica, ci priva di questo confronto, lasciandoci soli con la nostra mortalità.
Nick Bostrom, in ‘Superintelligence’, 2014, si chiedeva se l’IA potesse superare l’uomo; nel 2025, questa domanda è meno astratta, e la risposta ci spaventa: un mondo dominato dall’IA potrebbe essere un mondo senza umanità, e quindi senza solitudine, ma a che prezzo?
La solitudine tecnologica ha anche una dimensione sociale. L’IA polarizza: chi la padroneggia prospera, chi no resta indietro. Nel 2025, le disuguaglianze digitali creano nuovi isolamenti: comunità escluse dalla rete, anziani che non capiscono gli algoritmi, lavoratori sostituiti da macchine.
Zygmunt Bauman parlava di ‘vite di scarto’ nella modernità liquida; oggi, l’IA decide chi scartare, chi lasciare solo.
E nei social, la solitudine si maschera da popolarità: influencer con milioni di follower confessano depressione, perché il ‘mi piace’ non è presenza. Eppure, c’è chi vede nell’IA una possibilità.
Yuval Noah Harari, in ‘Homo Deus’, 2015, immagina un futuro in cui la tecnologia ci liberi dai limiti umani, inclusa la solitudine. Ma questa liberazione è reale? O è un’ennesima illusione?
L’uomo contemporaneo, nel 2025, è solo non perché manca di strumenti, ma perché quegli strumenti – l’IA in primis – lo allontanano dalla sua essenza.
Come scriveva sempre il già citato Rilke nella prima parte dell’articolo:
Siamo soli, infinitamente soli, e tutto ciò che ci circonda è solo un’eco lontana.
La tecnologia amplifica quell’eco, ma non la spegne. La solitudine dell’uomo moderno, intrecciata al progresso tecnologico e all’IA, è dunque un labirinto: ci perdiamo tra connessioni fasulle, specchi artificiali, silenzi assordanti.
È la solitudine di chi ha tutto e niente, di chi parla con il mondo ma non con sé stesso. Forse la sfida non è abolirla, ma abitarla, come suggeriva Camus: trovare un senso nel nonsenso.
O forse, semplicemente, è il prezzo di un’epoca che ha scambiato l’essere con l’avere, il tu con l’esso, l’uomo con la macchina.

Autore Massimo Frenda
Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.