La solitudine dell’uomo contemporaneo è un’ombra che si allunga silenziosa, un’eco che risuona nei corridoi vuoti delle città ipertecnologiche, tra i display luminosi e le notifiche che scandiscono esistenze sempre connesse eppure disperatamente isolate.
Sembra l’incipit della vita di tutti noi.
È così e non possiamo mentire.
Non è una solitudine nuova, ma è una solitudine mutata, trasfigurata dalla modernità, un sentimento che si nutre di paradossi: mai l’uomo è stato così vicino agli altri, mai si è sentito così lontano. Ambiguamente mi verrebbe da aggiungere.
Socrate, camminando per le strade di Atene nel V secolo a.C., interrogava i suoi concittadini per strapparli dall’ignoranza, ma oggi chi interroga l’uomo contemporaneo? Chi lo scuote dal torpore di uno scrolling infinito?
La solitudine non è più solo un’esperienza fisica, un eremitaggio scelto o imposto, ma un vuoto interiore che si insinua anche nella folla, un ‘essere soli insieme’, come direbbe David Riesman, che nel suo ‘The Lonely Crowd’ del 1950 descriveva già l’alienazione dell’individuo in una società di massa.
Eppure, per capire questa condizione, dobbiamo risalire indietro, alle radici storiche e filosofiche di un sentimento che accompagna l’umanità da sempre, trasformandosi con essa.
Pensiamo all’uomo medievale, immerso in un cosmo ordinato da Dio, dove la solitudine era un lusso raro o una punizione divina. L’isolamento fisico esisteva, l’eremita nel deserto, il monaco nella cella, ma la solitudine psicologica era mitigata dalla certezza di un ordine trascendente.
Sant’Agostino, nelle sue Confessioni del 397 d.C., scriveva:
Ci hai fatti per Te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te.
L’uomo medievale poteva sentirsi smarrito, ma mai davvero solo, perché il suo io era parte di un tutto più grande. Poi arrivò la modernità, e con essa il grande strappo.
Cartesio, nel XVII secolo, con il suo ‘Cogito, ergo sum’, ‘penso, dunque sono’, spostò il baricentro dell’esistenza dall’universo all’individuo. Fu una rivoluzione: l’uomo divenne il soggetto, ma anche il primo prigioniero della propria mente.
La solitudine moderna nasce qui, in questo atto di autoproclamazione dell’io, che separa l’individuo dal cosmo e lo consegna a sé stesso.
Il Rinascimento aveva esaltato l’uomo come misura di tutte le cose, ma fu l’Illuminismo a renderlo orfano. La ragione, celebrata da Kant come la luce che guida l’uomo fuori dalle tenebre dell’ignoranza, lo liberò dai dogmi, ma lo lasciò anche nudo di fronte all’universo.
‘Sapere aude’, ‘osa sapere’, diceva Kant, ma sapere cosa? Che non c’è più un cielo a cui guardare con certezza? Oggi pare una domanda infinitamente ridicola o incoscientemente significativa.
Nietzsche, più tardi, avrebbe dato voce a questa orfanità con il grido del folle ne ‘La gaia scienza’, 1882:
Dio è morto. Dio resta morto. E noi lo abbiamo ucciso.
La morte di Dio non è solo teologica, è esistenziale: l’uomo contemporaneo si ritrova solo perché non ha più un punto fermo, un’ancora metafisica. La solitudine diventa allora una condizione ontologica, non più un accidente, e il XX secolo ne è il teatro perfetto.
Pensiamo alla Prima Guerra Mondiale, alle trincee fangose dove milioni di giovani morirono soli pur essendo spalla a spalla.
Erich Maria Remarque, in ‘Niente di nuovo sul fronte occidentale’, 1929, descrive il soldato Paul Bäumer che, tra i cadaveri e il silenzio rotto dalle granate, si chiede cosa significhi essere umano in un mondo che ha perso senso.
Quella solitudine fisica, imposta dalla guerra, si trasforma in un’eredità spirituale per il dopoguerra. Sembra ieri, eppure è anche oggi, mi verrebbe da aggiungere.
Il modernismo letterario, Kafka, Joyce, Eliot, dà voce a questa frattura: l’uomo è un insetto intrappolato nella metamorfosi, un Ulisse senza Itaca, waste land, una terra desolata. T. S. Eliot, nel suo poema del 1922, scrive:
Questi frammenti io li ho puntellati contro le mie rovine.
La solitudine non è più solo assenza, è frammentazione. E poi arriva la tecnologia, la grande promessa del XX secolo che diventa il paradosso del XXI.
Marshall McLuhan, negli anni 60, parlava di un ‘villaggio globale’, ma questo villaggio è abitato da fantasmi digitali. L’uomo contemporaneo è connesso a tutti e a nessuno.
Jean Baudrillard, ne ‘Il sistema degli oggetti’, 1968, ci avverte che la proliferazione di beni e schermi crea un’illusione di pienezza che maschera il vuoto.
Oggi, nel 2025, questa profezia si è compiuta: l’iperconnessione ha reso la solitudine ancora più acuta. Ogni like, ogni messaggio, è un grido nel vuoto, un tentativo di colmare un silenzio che non si spegne mai.
Zygmunt Bauman, con il suo concetto di ‘modernità liquida’, descrive un’epoca in cui i legami si disfano come acqua tra le dita:
La solitudine non è più un destino, è una scelta imposta dalla precarietà.
L’uomo contemporaneo è solo perché non può più fidarsi della durata delle relazioni, del lavoro, di sé stesso.
Ma torniamo indietro, perché la solitudine ha radici più antiche di quanto immaginiamo.
Gli stoici, come Seneca, la vedevano come una virtù.
Nel ‘De tranquillitate animi’, Seneca scrive:
Nulla è più utile all’uomo che starsene per conto suo e parlare con sé stesso.
Per lui, la solitudine era un ritorno all’essenza, un distacco dal rumore del mondo per trovare la pace interiore. Eppure, l’uomo contemporaneo non cerca questa solitudine stoica: la subisce.
Pascal, nel XVII secolo, intuiva già il dramma moderno:
Tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola cosa: non saper restare tranquilli in una stanza.
Nei suoi Pensieri, Pascal descrive l’uomo che fugge da sé stesso, incapace di affrontare il silenzio. Oggi quel silenzio è insopportabile, coperto dal ronzio incessante degli smartphone, ma non per questo meno presente.
La solitudine dell’uomo contemporaneo è anche figlia dell’urbanizzazione. Le città, da Londra ottocentesca a Tokyo del 2025, sono formicai di anime sole.
Charles Dickens, in ‘Bleak House’, 1853, descriveva già la Londra industriale come un labirinto di estranei:
Migliaia di persone passano l’una accanto all’altra, senza mai conoscersi.
Oggi, nelle metropoli ipermoderne, questa distanza si amplifica: l’uomo vive in condomini dove non conosce il vicino di pianerottolo, si sposta in metropolitana con lo sguardo fisso sullo schermo, evitando il contatto.
Michel Foucault parlava di ‘eterotopie’, spazi altri in cui l’individuo si riflette senza mai trovarsi davvero: la città contemporanea è l’eterotopia della solitudine.
E la filosofia?
Heidegger, nel XX secolo, ci offre una chiave in ‘Essere e tempo’, 1927: l’uomo è un ‘Dasein’, un essere-gettato-nel-mondo, condannato alla libertà e all’angoscia.
La solitudine è parte di questa gettatezza:
L’essere-con gli altri non elimina l’essere-solo.
Sartre, invece, radicalizza il tema: ‘L’inferno sono gli altri’, Huis Clos, 1944. Ma se gli altri sono l’inferno, la loro assenza non è forse un inferno ancora peggiore? L’individuo contemporaneo oscilla tra il desiderio di connessione e il terrore di essa, intrappolato in un limbo esistenziale.
Albert Camus, ne ‘Il mito di Sisifo’, 1942, ci sfida a immaginare Sisifo felice, ma il Sisifo moderno non spinge più un masso: spinge un carrello virtuale di distrazioni, solo nella sua fatica.
La storia ci mostra che la solitudine cambia forma, ma non scompare. Durante la peste nera del XIV secolo, Boccaccio nel ‘Decameron’ narra di un’umanità che si ritira, fisicamente e spiritualmente, per sopravvivere.
Oggi, dopo pandemie e lockdown, pensiamo al 2020, l’isolamento è diventato norma, un’abitudine che ha lasciato cicatrici.
Hannah Arendt ne ‘Le origini del totalitarismo‘, 1951, parlava della solitudine come terreno fertile per la manipolazione: l’uomo solo è vulnerabile, privo di legami che lo ancorino. E nel 2025, tra fake news e polarizzazioni, questa vulnerabilità è più evidente che mai.
Ma c’è speranza?
Schopenhauer, pessimista per eccellenza, ne ‘Il mondo come volontà e rappresentazione’, 1819, vede la solitudine come inevitabile:
La vita oscilla come un pendolo tra la noia e il dolore.
Eppure, suggerisce che l’arte e la contemplazione possano elevarci. L’uomo contemporaneo, però, raramente contempla: consuma.
Viktor Frankl, sopravvissuto ai lager, offre una via diversa in ‘Uno psicologo nei lager’, 1946:
Chi ha un perché per vivere può sopportare quasi ogni come.
La solitudine diventa sopportabile se trova un senso. Ma qual è il senso dell’uomo contemporaneo, perso tra algoritmi e crisi climatiche?
La solitudine dell’uomo contemporaneo è dunque un mosaico: è la solitudine di Adamo dopo la cacciata, di Prometeo incatenato, di Robinson Crusoe sull’isola, di ogni astronauta che guarda la Terra da lontano.
È storica, filosofica, tecnologica. È il prezzo della libertà, il peso dell’io, il silenzio dopo il crollo delle grandi narrazioni.
Come scriveva Rainer Maria Rilke in ‘Lettere a un giovane poeta’, 1903:
Forse tutte le cose terribili sono in fondo cose prive di aiuto che aspettano il nostro aiuto.
Forse la solitudine dell’uomo contemporaneo non è una condanna, ma un invito, a tornare a sé stessi, agli altri, al mondo. O forse, più semplicemente, è ciò che siamo, ora e sempre.

Autore Massimo Frenda
Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.