Una volta durante le vacanze, scusate, villeggiatura, c’era sempre un pomeriggio che veniva costruito apposta per scrivere cartoline: quando il sole era troppo forte per stare in spiaggia, quando i grandi dormivano e i bambini si annoiavano.
Si scendeva in paese, spesso scalzi e senza fretta, e si rovistava nei cestoni davanti all’edicola.
La scelta era un rito: una cartolina col tramonto per la fidanzata rimasta in città, una con il campanile per il nonno che voleva ‘vedere com’è fatto il posto’, una buffa con i pesci per l’amica di scuola. Ogni cartolina aveva un destinatario preciso. Non si scriveva a tutti, si scriveva a qualcuno.
Scriverla era un gesto lento e personale: bisognava trovare una penna che funzionasse su quel cartoncino lucido, recuperare l’indirizzo; magari anche saperlo a memoria: era parte del pensiero.
Poi comprare un francobollo e trovare la buca delle lettere. Non si cercava l’effetto, si cercava il legame. E poi si imbucava. Fine.
Nessuna conferma di lettura, nessun like. Solo l’idea che quella cartolina avrebbe viaggiato, e che un giorno avrebbe fatto sorridere chi l’aveva ricevuta.
Era un messaggio con un solo destinatario, un frammento di presenza spedito a distanza, un gesto che non aveva bisogno di essere ripagato in tempo reale.
Oggi, invece, mandiamo lo stesso selfie con lo stesso tramonto, lo stesso sorriso un po’ forzato, lo stesso filtro a cancellare rughe o realtà, la stessa cena o l’aperitivo, magari a raffica.
Lo mandiamo a tutti, inoltriamo, pubblichiamo, condividiamo. Non si sceglie a chi, si manda a quanti più possibile.
Ma poi, a ben vedere, a chi arriva davvero?
E soprattutto: a chi importa?
A chi parla quel selfie?
A tutti e a nessuno.
È una comunicazione senza intimità, un gesto che ha perso calore e attenzione. Nessuno scrive più a qualcuno: si trasmette a molti, nella speranza che almeno qualcuno reagisca.
E poi cominciamo a contare. Non i destinatari, ma le visualizzazioni. Non l’effetto, ma la portata. Non l’emozione, ma l’engagement.
Ci riduciamo a numeretti.
Quanti lo hanno visto?
Quanti hanno messo un cuoricino?
Perché non ha risposto?
La cartolina era una certezza: spedivi e sapevi di aver fatto qualcosa per una persona.
Il selfie, invece, è una domanda aperta, spesso una richiesta d’attenzione travestita da condivisione. Non è più un pensiero che parte, ma un segnale che torna indietro solo se piace. Uno scroll di WhatsApp che è, ammettetelo, autocompiacimento.
Il problema non è il selfie, è la sua serialità. Non è il condividere, è il farlo senza pensare.
Abbiamo sostituito il tempo con la velocità, la cura con l’efficienza, il messaggio con il segnale. E con questa disabitudine al pensiero unico, personale, rallentato, rischiamo di crescere figli che non sapranno mai cosa vuol dire ricevere una cartolina.
Non sapranno cosa significa che qualcuno ha pensato a loro, solo a loro, in un pomeriggio d’estate, con una penna vera e una frase imperfetta. Non sapranno cos’è un pensiero dedicato, non condivideranno più un’attesa, non crederanno che un messaggio possa arrivare giorni dopo, e avere comunque valore.
Chi scriverà a tuo figlio una cartolina?
Chi gli insegnerà che si può pensare a qualcuno senza doverlo far sapere a tutti gli altri?
Chi gli farà capire che l’essenziale non si inoltra, non si tagga, non si mette in evidenza?
Forse cominciando da noi. Magari non serve molto. Forse basterebbe una cartolina. Ma vera.
E quando la riceverà capirà che, almeno per una persona, non è soltanto un numero o l’ennesimo clic seriale o compulsivo.
Autore Gianni Dell'Aiuto
Gianni Dell'Aiuto (Volterra, 1965), avvocato, giurista d'impresa specializzato nelle problematiche della rete. Di origine toscana, vive e lavora prevalentemente a Roma. Ha da sempre affiancato alla professione forense una proficua attività letteraria e di divulgazione. Ha dedicato due libri all'Homo Googlis, definizione da lui stesso creata, il protagonista della rivoluzione digitale, l'uomo con lo smartphone in mano.













