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Pulcinella, Fabio Da’ath, la Verità e la Benevolenza

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Pulcinella


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Il sogno della scorsa notte, oltre ad essere abbastanza singolare, merita di essere trascritto e condiviso con chi ne è interessato e con chi desidera intraprendere un percorso personale.

È ambientato in un sito contraddistinto da diversi suoni e ritmi frenetici, ma carico di vibrazioni che, dal profondo, dal sottosuolo, giungono ad ogni persona che si aggira nei paraggi.

Mi trovo a Napoli, nei pressi di Port’Alba, voluta da Don Antonio Álvarez de Toledo, Duca d’Alba, varco che conserva indelebilmente i ricordi di Maria ‘a rossa e permette di accedere ad uno snodo culturale caratterizzato dall’odore dei libri antichi e moderni di grande valore, esposti sulle bancarelle e sugli scaffali, e di giungere nella zona del centro storico della città, quella che consente al viandante di approssimarsi ai luoghi in cui personaggi del calibro di Giordano Bruno e Raimondo di Sangro consegnano ai posteri il loro lascito sapienziale.

Accompagnato dal fido Fabio Da’ath, gli spiego che sono in cerca di un manuale che illustri, in modo adeguato, le verità insite nell’attività onirica e i suoi significati simbolici.

I sogni, infatti, oltre a raccontare storie dinamiche e soggettive, parte del vissuto individuale, sono correlati con la quotidianità e possono essere assimilati a finestre che affacciano sull’interiorità del sognatore, attingendo sia all’esperienza personale, recente e lontana, che alle paure, speranze, preoccupazioni, impressioni, emozioni e alla sete di sapienza e di conoscenza.

C’è chi dice siano espressione di desideri nascosti, chi, invece, siano la rilettura di un episodio o di un evento della vita; io penso siano spesso viaggi archetipici che consentono salti logici impossibili ed inesprimibili nello stato vigile.

Mentre sono intento in queste considerazioni, un quadro con cornice dorata, dalle pessime condizioni, che campeggia su una bancarella, facendo bella mostra del suo paesaggio, conquista la nostra attenzione. Ritrae un elefante bianco che primeggia sulle pendici di una montagna semi brulla e un vegliardo, dalle sembianze di Ermete Trismegisto, che, seduto a valle, lo osserva da lontano.

Come d’incanto, alle nostre spalle appare un vecchio signore, dalla voce nota, che, appoggiando le mani sulle nostre spalle, salutandoci, esordisce:

Miei cari, non temete, sono io, Giustiniano Lebano, e sono qui per raccontarvi qualcosa di utile per la vostra crescita interiore.

Emozionatissimi, ci poniamo all’ascolto dello stregone di Trecase.

Fabio sembra svenire; i suoi occhi lasciano colare sottilissime lacrime e il suo viso diventa rosso fuoco.

Il Maestro, lasciandosi andare ad un delicatissimo sorriso, chiarisce:

La tela che state osservando riguarda un’antica favola Indù, secondo cui tre uomini molto saggi sono in cerca del ‘Sacro Elefante Bianco’, che per loro non è un semplice mito, bensì, un vero esemplare vivente della più elevata Divinità, poiché rappresenta ‘L’Esaltazione della Verità Assoluta’.

Sono tre infaticabili pellegrini, immersi nella più nobile esplorazione dei Misteri Universali, tre anziani, venerabili, inquieti come bambini e con una mente capace di abbracciare l’inaspettato, le cose nuove, il trascendentale. Sono ciechi dalla nascita, ma questa menomazione, non è per loro di alcun ostacolo, perché non impedisce la ricerca sacra, dato che, come è risaputo, molte volte sono gli occhi ad offuscare ed accecare la percezione.

Per gli occhi fisici, infatti, tutto è apparenza, ma per gli occhi dell’intuizione, quelli dell’Anima, la realtà relativa e le esteriorità svaniscono.

Dopo aver cercato in varie città, esausti, arrivano ad un villaggio abitato da gente semplice che gentilmente, spiega loro dove, secondo gli antichi saggi del paese, l’animale si trovi. Così rinfrancati e rallegrati, con decisione e fermezza, si introducono nella selva. Camminano duramente per tutta la mattina e, da non vedenti, acutizzano al massimo tutti gli altri sensi.

Cala il pomeriggio e, seppur spossati, proseguono con l’entusiasmo degno dei veri cercatori, finché sentono e persino annusano la presenza del pachiderma. Profondamente emozionati, iniziano a correre verso di lui e, per compassione, al loro passaggio gli alberi si scostano.

Il magico incontro con ciò che hanno sempre cercato è dunque avvenuto, la richiesta è stata esaudita da un’evocazione divina, in virtù della costanza e della perseveranza mantenute per tutta la vita.

Il primo si aggrappa forte alla proboscide dell’elefante, cadendo immediatamente in una profonda estasi, il secondo abbraccia con forza poderosa una delle zampe e il terzo afferra amorevolmente una delle orecchie, poiché il grande mammifero è placidamente sdraiato a terra su alcune foglie. Ognuno di essi sperimenta, senza dubbio, una serie infinita di sensazioni. Pieni della sua benedizione se ne vanno, profondamente trasformati.

Tornati al villaggio, alloggiano in una capanna e, nell’intimità, condividono le proprie esperienze. Accade, però, qualcosa di strano. Iniziano ad alzare la voce e a discutere sulla “Verità”.

Per uno la rappresentazione del Sacro Elefante Bianco è lunga, rugosa e flessibile; per un altro è dura e mediana, come un grosso tronco di albero, per l’ultimo è fine, ampia e si muove come il vento.

I tre, benché saggi e belle persone, non si comprendono e decidono di separarsi. Viaggiano in solitudine e in povertà per molte terre e, diffondendo ognuno la propria visione, creano tre grandi religioni.

L’espansione è rapida, perché predicano sempre onestamente. Sono giunti a trovare la Divinità, ma non percependone la sua ampiezza, si sono limitati a sperimentarne una parte, non il Tutto; pertanto, benché sinceri nella loro ricerca e nel loro servizio, si sono fermati davanti ad una limitazione mentale.

Terminato il racconto, Giustiniano chiosa:

Penso che ognuno di loro abbia raggiunto un’intuizione parziale, anziché totale e, spinto forse, sia dal versetto in cui Cristo dice “Conoscete la Verità ed essa vi farà liberi”, sia dalla buonafede, provano a comprenderla e disseminarla, dimenticando che all’uomo non dato di sperimentarla interamente.

Avrebbero dovuto fare come Buddha, che, interpellato da due monaci su quale sia l’autenticità del mondo, anziché rispondere, accennando un delicatissimo sorriso, senza alcun gesto e soprattutto in profondo silenzio, prosegue nel suo cammino. Il suo mutismo, così come quello di Cristo al cospetto di Pilato, a parer mio rappresenta la miglior risposta al quesito.

Lo stesso intellettuale austriaco Ludwig Wittgenstein, nell’opera ‘Il Tractatus Logico-Philosophicus’ sostiene che tutto ciò che può essere detto si può affermare chiaramente, mentre ciò di cui non si può parlare va taciuto.

Chi non è interessato ad intraprendere un adeguato percorso evolutivo, trasforma la Verità in una sorta di astrazione irreale, soggetta ad essere smascherata da quelle azioni concrete attraverso cui si evince cosa stia accadendo, ovvero, se ci si stia avvicinando ad essa o allontanandosene.

Caratterizzarne e descriverne le peculiarità non è un’impresa facile perché essa ha ragione di esistere solo come manifestazione, attraverso l’uomo, dell’amore e della saggezza di Dio. Chi percepisce e fa suoi i doni del Signore, non necessita di proferire parola, perché le sue azioni, in silenzio, parlano per lui.

I giudizi di merito, poi, sono rischiosi. L’uomo che usa ‘indice accusatorio verso qualcuno non tiene conto che, nella sua mano, vi sono tre dita rivolte verso di sé.
La valenza di questa considerazione consiste nel fatto che, oltre alla verità assoluta, esistono quelle relative e quelle soggettive. Ognuno, se vuole, anziché puntare il dito è in grado di scoprire l’unica verità capace di resistere alla corruzione della materia e giungere alla verità dello spirito.

Premettendo che i tre saggi sono riconducibili ai Re Magi in viaggio verso Betlemme, che l’Elefante Bianco, nel Buddismo, è ritenuto animale sacro e nella tradizione cristiana indica le virtù della castità e della temperanza ed è un simbolo di Cristo che schiaccia il serpente, desidero porre alla vostra attenzione una mia osservazione.

Dato che la Verità va sperimentata giorno per giorno, la riflessione sulla storia che vi ho narrato, vi consente di trarre conclusioni che, secondo le vostre coscienze, ritenete, oltre ogni ragionevole dubbio, valide. La possibile soluzione, che, però, sento di suggerirvi, consiste nel discernimento attuato mediante l’intelligenza e l’amore verso i temi che riguardano la vita umana.

L’iniziato che sulla Scala di Giacobbe poggia i piedi sul gradino che gli compete riesce a comprendere che lo sviluppo della favola dell’Elefante Bianco simboleggia e rispecchia molti problemi che attengono la sfera spirituale.

C’è chi sostiene che molti, emulando i tre anziani, cercano felicità, successo, pienezza, amore, accettazione, amicizia, il perché delle cose, della vita e dell’esistenza. Altri asseriscono che l’essere umano, così come i tre saggi, non tenendo conto o non vedendo la propria ignoranza, insegue, giustamente, il sacro, il divino.

Personalmente penso che l’uomo, non potendo contare pienamente sull’intelletto e sui sensi individuali, incapaci di fornire un adeguato supporto, sia costretto ad affrontare grosse difficoltà nella ricerca, nell’investigazione e nella scoperta, della Quintessenza, dello Spirito e della Divinità che dimora in lui.

Vi invito a riflettere sui tre ciechi, perché ognuno di loro fa sua solo una parte del Grande Mistero. Così come una goccia non può inglobare in sé tutta l’acqua dell’oceano, l’uomo non è in grado di abbracciare, nella sua interezza, il mare magnum di saggezza, giacché acquisire una profonda conoscenza dell’assoluto consiste nell’assorbirne tutto contenuto.

In molti, non tenendo conto del verso in cui Gesù dice “Io sono la via, la verità e la vita”, non considerando che è impossibile porre limiti a ciò che è infinito, tentano di monopolizzare la verità attraverso una dottrina o una filosofia. Io ritengo che l’individuo, non potendo vivere lontano da essa, anziché confinarla in un libro o nelle gesta di un semidio, dovrebbe cercarla e viverla quotidianamente.

Come sostengo nel mio ‘Inno alla verità’:
“Lungi, o profani, questo carme mio non è per voi. Che dentro al tempio arcano si lancia l’estro sacro in seno al Dio…”

È giusto e necessario che i punti fermi sacri della Tradizione siano protetti dalle profanazioni del volgo; ciò nonostante, visto che nessuno ne è proprietario, deve essere data la possibilità a chi ne è degno, di accedervi, mediante un continuo lavoro su di sé.

I tre saggi, nonostante siano sulla strada giusta e ne posseggano una discreta conoscenza, devono accrescere maggiormente le loro virtù morali. La vera consapevolezza non può essere solo una dote ereditaria ad appannaggio di casate o cerchie ristrette, ma deve essere conquistata da chi ne ha la virtù morale.

Il mio indiretto maestro, Domenico Bocchini, in modo ermetico e con enfasi, attraverso le pagine del suo Geronta Sebezio, cerca di mostrare a chi lo merita, un mondo sotterraneo ed astrale, in cui sono depositate le antiche saggezze.

Nonostante io sappia le difficoltà dovute alla comprensione del suo linguaggio, vi cito un suo sonetto in cui dice che le Verità Sacre devono essere comprese solo da chi possiede un’adeguata intelligenza ermetica perché, oltre a penetrare e andare oltre le parole, si spingono laddove la razionalità volgare non può immergersi:

“Erano tre i parlari nel vetusto. Demotico era il primo: Era il secondo Hieratico appellato; o pur giocondo: Il terzo in Geroglifi avea l’augusto. Col proto il volgo vi trovava il gusto, Da tutt’inteso: e v’era anche il profondo Retorico del Foro, ed il facondo Dell’Oratoria in dir grave, e robusto. Nell’altro v’era il Sacro: cui la Plebe Comprender non dovea: nata al servaggio, E coll’aratro a spappolar le glebe. Ma nelle cifre poi… non sono note. Svegliano solo alla mente del Saggio L’ideografia fra vari cerchi rote”.

Dopo aver ascoltato con grandissimo interesse tali versi, Fabio accortosi che Don Giustiniano Lebano non intende aggiungere altro, abbassando lo sguardo per evitare di mostrargli la sua commozione, esordisce:

Esimio Maestro, caro Pulcinella, tenendo conto della carità insita nella verità, di cui Gesù Cristo si è fatto testimone con la sua vita terrena e soprattutto, con la sua morte e risurrezione, desidero raccontarvi un curioso episodio.

Ieri, il display della cassa di un noto Centro Commerciale della mia zona riportava la cifra di €26,80. Una signora che doveva pagare il conto, con grande imbarazzo, abbassando il tono di voce, si scusò, dicendo di aver dimenticato il bancomat a casa e di avere solo €25,00, dunque chiese se dovesse togliere qualcosa. Sia io che gli altri in fila abbiamo notato che tra gli articoli poggiati sul rullo c’erano solo generi di prima necessità.

L’imbarazzo era palpabile, la scena toccante. Il volto della mamma, privo di trucco e manifesto di una vita di stenti e sacrifici, era corrucciato perché doveva scegliere cosa sottrarre ai figli. Non vestiva griffato, ma allo stesso tempo non era trasandata.

Il signore dietro di lei, richiamandone l’attenzione, le fece notare che, aprendo il borsello, doveva aver fatto cadere inavvertitamente la banconota da dieci euro che era sul pavimento. Lei, sorpresa ed indecisa sul da farsi, tentennava; sapeva che non erano soldi suoi, ma, avendone bisogno, rassicurata dallo sguardo benevole dell’uomo, la prese.

La sua onestà non era in discussione, quindi, con l’espressione gioconda di una bambina che riceve un nuovo giocattolo, mostrandogli con un sorriso tutta la sua gratitudine, pagò e, mentre si dirigeva verso l’uscita, con lo sguardo luminoso e il cuore colmo di sollievo, lo ringraziò nuovamente.

Il comportamento del filantropo, oltre a stupire i presenti, fu di grande insegnamento. Infatti, evitando di offrirsi di pagare direttamente, non lese la sua dignità e non la mise a disagio. I suoi occhi, delicati e saggi, sembravano pronunciare, in silenzio, una breve ma significativa frase: “Chi fa beneficenza taccia, chi, invece, ne riceve lo ricordi”.

Accortosi poi di essere osservato, si voltò verso di me ed aggiunse:

“La carità è un sentimento puro che appartiene al patrimonio genetico voluto ed innestato dal Padre Celeste in ogni uomo. Se vera e sincera, è un’emozione inspiegabile, depositaria di un grande mistero che non va sbandierato ai quattro venti, ma secretato nel profondo del cuore.

Il “disegno di benevolenza” del Signore è frutto di un atto volontario che riporta alla mente il mistero della volontà indirizzata all’uomo come opera intenzionale di creazione. Si manifesta mediante il Figlio e attraverso di lui, e nonostante appaia incomprensibile al raziocinio umano, è metabolizzato e compreso dal cuore, perché è il risultato di una scelta celeste intesa a trasformare l’esistenza dell’individuo, che, modificando il dono gratuito dell’Onnipotente in un’indulgenza verso un suo simile, induce l’uomo illuminato ad essere clemente verso i bisognosi.

Colui che, spinto dall’amore disinteressato e fraterno, bada alle necessità altrui, prova sempre un’immensa gioia, perché questo sentimento unisce le persone con l’Altissimo e tra loro, attraverso la Divinità. Attraverso atti di carità, benevolenza e tolleranza, si prova estasi, ci si eleva, non affidandosi più agli eventi governati da un immaginario fato irrevocabile, bensì ad una volontà superiore. Dunque, da una fase di inattività si passa a quella di soggetto attivo nel Cosmo e per il Cosmo.

L’uomo illuminato, quindi, attraverso la gnosi e la partecipazione al pensiero della Sophia, riesce a generare una parte della Creazione, ossia, un’immagine del Padre Celeste. In altre parole, Cristo, il Figlio, genera se stesso tramite il Padre. Colui che fa sue le parole dell’Apostolo Giovanni, quando dice che se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo, se, invece, muore produce molto frutto, riesce a vivere una trasformazione interiore e partecipa, cospicuamente, all’espansione dell’Universo”.

Giustiniano, ascoltatolo ed appurato che abbia terminato, poggiandoci, in modo paterno, una mano sulla spalla, ci lascia e si incammina verso un gruppo di persone che lo attende.

Fabio, percependone l’affetto, preda di un’emozione indicibile, scusandosi con me, lo segue, perché non riesce a fare a meno della sua presenza.

Ormai solo, considero come l’essere umano abbia costantemente bisogno di sicurezza, materiale ed interiore, per gestire le emozioni, gli affetti, l’esistenza e l’identità, e, per questo, provi a raggiungerla in tutti i modi possibili, mettendosi in discussione e ponendosi quesiti quali:
“Che posto occupo nel sistema della vita? Cosa si aspetta questa da me? A cosa servo realmente?”

Questo atteggiamento, spesso, lo porta non farsi prendere dall’inquietudine, dall’incertezza, quindi ad intraprendere un percorso che lo spinga a realizzare azioni che, pur sembrando piccole, in realtà, sono grandi. Una su tutte la Carità, intesa come virtù che lo eleva ad una vita d’interconnessione mistica con la Luce, ossia con Dio, e che manifesta una partecipazione attiva alla Natura Divina che, elevando quella umana, mediante il Sé interiore, lo gratifica e gli permette di avvicinarsi alla Sorgente.

Tante sono le sfaccettature della Carità, che pur apparendo tali, non lo sono. Lo Spirito Santo, che, permettendo all’uomo di giudicare ogni azione con la sua ispirazione, gli consente di dar luogo a quella su cui si fonda la sua Saggezza. La Misericordia verso il dolore, che prova chi soffre per uno stato di povertà. O ancora la Generosità, che spinge ad ostacolare il Male, sia nel mondo materiale che in quello spirituale. Ed infine, la Coscienza, che permettendo al singolo di decidere per il Bene, partecipa al processo di trasmutazione ed elevazione individuale.

Prima di passare dallo stato di sonno a quello di veglia, ho tempo per meditare anche sulla favola dell’Elefante Bianco e sul racconto di Fabio, dove, oltre a celarsi una saggezza da scoprire, su cui riflettere ed investigare, si nasconde una Verità umana, che, nonostante differente da quella Divina, merita ammirazione e considerazione.

Dato che esiste sia la realtà assoluta che quella relativa, l’uomo va considerato come parte di una Verità assoluta nell’ambito del relativo, pertanto, l’intelletto razionale è effettivamente capace di comprendere l’interminabilità, l’immensità e l’indicibilità di quella assoluta.

Comprensione non facile, perché una delle chiavi dell’esistenza umana consiste nel conoscere quella realtà che ingloba, al suo interno, il mistero che consente all’uomo di essere “figlio di Dio”, quindi, spiritualmente immortale e divino.

Una Verità che, nonostante gli permetta di avere ragionevoli dubbi, fa sì che si affacci ai Misteri della Vita e della Metafisica con quell’adeguata umiltà mentale che aiuta a decidere, con discernimento, se ascendere o discendere, e che conduce alla luminosità dell’Uno.

Nell’indugiare in tali riflessioni, oltrepasso la porta che, dal sonno allo stato di veglia, mi concede, spinto dalla volontà, d’intraprendere il cammino che conduce alla desiderata evoluzione spirituale, attraverso l’accesso ad un grado di conoscenza superiore e che rende possibile la percezione dell’assoluto.

Giandomenico Tiepolo, La partenza di Pulcinella, 1797, affresco. Ca' Rezzonico, Venezia

Autore Domenico Esposito

Domenico Esposito, nato ad Acerra (NA) il 13/10/1958, laureato in Scienze Organizzative e Gestionali, Master in Ingegneria della Sicurezza Prevenzione e Protezione dai Rischi, Master in Scienze Ambientali, Corso di Specializzazione in Prevenzione Incendi. Pensionato Aeronautica Militare Italiana.