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Privacy e social? Come chiedere un caffè fatto con sola acqua

caffè fatto con sola acqua

Sui social ci siamo finiti tutti. C’è chi ci va per lavoro, chi per noia, chi per guardare, chi per sentirsi guardato. È diventata la nuova piazza, il nuovo bar, il nuovo specchio.

Tutto gratis, si dice. Ma nessuno si chiede perché un servizio gratuito valga miliardi.

Semplice: il prodotto non è il social. Sei tu. Ma lo avevamo già detto, vero?

I tuoi dati, i tuoi gusti, le parole che usi, le foto che carichi, il tempo che passi su un video. Ogni clic è una moneta. E quando pensi di “accettare il trattamento dei dati” firmando una privacy policy lunga quanto ‘I Promessi Sposi’, in realtà stai dando via libera a un mercato in cui tu non compri nulla: sei la merce esposta! Sei il premio dell’azienda che taglia il traguardo per prima nell’offrirti il suo prodotto.

La privacy, un tempo, era il diritto a non essere disturbati. A tenere per sé certe cose. Oggi è diventata una posa, una finzione.

Come il ghiaccio bollente: ti sembra che raffreddi, ma brucia. Oppure come il caffè fatto con sola acqua: la tazzina è calda, il colore c’è, ma manca tutto. Il gusto, la forza, la sostanza.

E intanto si parla di “autotutela”. Di imparare a proteggersi. Sì, come no.

Ma chi dovrebbe proteggersi davvero sa leggere otto pagine di clausole scritte da un team legale di Palo Alto?

Sai distinguere tra profilazione, finalità statistiche e marketing comportamentale? No. Ma loro sì. E lo fanno.

Nel frattempo, mentre noi adulti ci illudiamo di avere tutto sotto controllo, le nuove generazioni crescono tra filtri e illusioni.

Prendete una ragazzina di tredici anni che scorre Instagram. Guarda coetanee con le labbra a canotto, la pelle liscia come porcellana, lo sguardo da bambola. Quello non è il volto di una ragazza. È un prodotto di filtri, filler e Photoshop. Ma lei non lo sa. O, peggio, fa finta di non saperlo.

Così inizia a cercare su TikTok “come avere labbra più grandi”, trova il numero di un’estetista in tuta, con siringhe non sterili e prezzi scontati. La madre scopre tutto quando ormai è troppo tardi. Poi si grida allo scandalo. Ma il seme era stato piantato nel feed settimane prima.

Oppure un ragazzino di quattordici anni. Guarda i reel di un rapper con catene d’oro, tatuaggi, linguaggio da periferia posticcia e coltelli in mostra. Lo emula. Compra su Amazon un coltellino “da scena”, lo porta in tasca come fosse un portachiavi.

Tanto lo fanno tutti

dice.

E la scuola chiama. E i genitori si indignano. Ma quel coltello non lo ha inventato lui. Lo ha visto, in un video. E quel video è arrivato a lui perché qualcuno ha deciso che era il contenuto perfetto per un adolescente annoiato.

E noi?

Postiamo foto del pranzo, mandiamo faccine, e quando qualcosa non va gridiamo allo scandalo.

Facebook ci spia!

TikTok ruba i dati!

C’è troppa violenza su Instagram!

Vero. Ma noi, quando è stata l’ultima volta che abbiamo letto le impostazioni di privacy del nostro profilo?

Quando abbiamo spiegato a nostra figlia che un like può essere una trappola? Quando abbiamo detto a nostro figlio che un video non è realtà?

La verità è che ci siamo addormentati. Abbiamo scambiato la tecnologia per babysitter, i social per amici, le app per scuola di vita. Ma i social non educano. Vendono. E vendono quello che chiediamo: conferme, attenzioni, modelli falsi, privacy liquida.

Nel frattempo, il Garante fa il suo. Scrive, pubblica, avverte. Ma chi legge? Chi capisce? Chi cambia davvero le impostazioni del profilo?

L’autotutela è come il paraurti di una macchina: serve solo se sai guidare. Se no, prima o poi vai a sbattere. E le ammaccature si vedono.

I social non sono il male. Ma sono uno specchio deformante. E noi ci riflettiamo dentro, sperando che la realtà si adatti a quella cornice. Ma non succede.

E chi si fida troppo finisce per credere che tutto sia vero. Che il like sia amore. Che l’emoticon sia amicizia.

Che i dati personali siano una moneta da scambiare per dieci secondi di attenzione.

Sui social non sei più tu a scegliere cosa mostrare. Sono loro a scegliere cosa farti vedere.

E soprattutto, cosa raccogliere.

Tutto legale? Forse.

Tutto giusto? Decidilo tu.

Ma prima o poi, come col ghiaccio bollente o con il caffè fatto solo con acqua, ti accorgerai che ti hanno venduto qualcosa che sembrava buono… ma bruciava. E non sapeva di nulla.

Autore Gianni Dell'Aiuto

Gianni Dell'Aiuto (Volterra, 1965), avvocato, giurista d'impresa specializzato nelle problematiche della rete. Di origine toscana, vive e lavora prevalentemente a Roma. Ha da sempre affiancato alla professione forense una proficua attività letteraria e di divulgazione. Ha dedicato due libri all'Homo Googlis, definizione da lui stesso creata, il protagonista della rivoluzione digitale, l'uomo con lo smartphone in mano.