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Posto ergo sum, una vita instagrammabile

Posto ergo sum

Oggi tutto ciò che facciamo è sotto osservazione o, più correttamente, abbiamo scelto noi stessi di vivere sotto osservazione.
Non mangiamo più un piatto senza fotografarlo, non entriamo in una stanza d’albergo senza girare una storia, non facciamo una passeggiata al tramonto senza sentirci in dovere di condividerla.

Viviamo con la fotocamera interna sempre accesa, lo smartphone in mano da autopaparazzi come se ogni momento fosse un potenziale contenuto, un’occasione da non sprecare per dire al mondo: ci sono, sono qui, sto bene, guardatemi.

Il problema è che non stiamo più vivendo per noi. Viviamo per come ci immaginiamo attraverso lo sguardo degli altri. Una vita non è più compiuta quando è vissuta, ma solo quando è condivisa.

È accaduto davvero solo ciò che è stato postato, filtrato, e apprezzato. Il resto sembra non avere peso, valore, memoria.

Una cena diventa un servizio fotografico. Una passeggiata in centro, un set da sfruttare. Anche un momento privato, magari tenero, magari fragile, viene valutato in funzione di quanto può risultare bene in una storia da quindici secondi.

Siamo passati dalla realtà all’allestimento. Tutto viene preparato non per essere vissuto, ma per essere mostrato.

E a forza di esporre tutto, smettiamo di vivere qualcosa solo per noi stessi. Siamo diventati scenografi di noi stessi, registi di una narrazione che deve sempre funzionare, sempre piacere, sempre restare nella corsa all’attenzione. Ma l’attenzione è un gioco a tempo.

E spesso ci accorgiamo che più che vivere la vita, stiamo rincorrendo la reazione degli altri. Non basta fare qualcosa. Deve sembrare qualcosa. E soprattutto, deve piacere a qualcuno.

Abbiamo ceduto la nostra autovalutazione al pubblico. Abbiamo delegato la nostra soddisfazione a un like. L’approvazione altrui è diventata il metro con cui giudichiamo il nostro umore, la nostra bellezza, il nostro successo.

Ma chi sono questi altri?

Non li conosciamo neppure; e li chiamiamo amici. Altri ci seguono per inerzia, alcuni per abitudine, e molti non guardano nemmeno ciò che postiamo. Scorrono. Un doppio tap distratto. Un cuore automatico. Nient’altro.

Il paradosso è che più pubblichiamo, più sentiamo il bisogno di farlo. E più otteniamo attenzione, più ne vogliamo. Come se una piccola dose di visibilità fosse diventata una droga gentile, all’apparenza innocua, ma capace di svuotare ogni gesto del suo significato se non viene confermato, apprezzato, rilanciato.

Viviamo in funzione di ciò che potrebbe essere mostrato, e il confine tra esperienza e messa in scena si assottiglia fino a sparire. Se oggi siamo felici ma non lo condividiamo, ci chiediamo se quella felicità sia vera. Se facciamo un viaggio e non lo documentiamo, temiamo di averlo sprecato.

E tutto questo accade mentre crescono nuove generazioni che imparano a stare davanti a una fotocamera prima ancora di imparare a raccontarsi con le parole. Ragazzi che misurano il proprio valore non in base a ciò che sono, ma a quanto funzionano online.

Che imparano presto che l’importante non è dire la verità, ma dirla in un formato che piaccia. Che non cercano conferme dentro di sé, ma fuori, negli altri, nella massa indistinta del pubblico che cambia ogni giorno e dimentica ancora più in fretta.

Il vero problema non è la tecnologia, ma la direzione che le abbiamo dato. Nessuno ci obbliga a vivere così, ma in qualche modo abbiamo scelto questa vetrina continua, e ora facciamo fatica a uscirne.

Ogni giorno ci svegliamo e ci chiediamo, spesso senza neppure accorgercene, come far vedere agli altri che stiamo bene.

Ma ci chiediamo mai se stiamo davvero bene?

Chi siamo quando nessuno ci guarda?

Come viviamo quando non abbiamo nessuno a cui mostrarlo?

Quanto vale un ricordo che resta solo nostro, e non diventa una story, un post, un reel, un contenuto qualsiasi da sacrificare sull’altare dell’attenzione?

Forse la domanda da farsi è proprio questa: se nessuno ci mette un like, siamo ancora noi?

Una vita non ha bisogno di essere approvata per valere. Una giornata può essere perfetta anche se resta tutta per noi. Un momento può essere vero anche se non viene immortalato.

Ma per tornare a pensarla così, dobbiamo reimparare a vivere. Non per gli altri, ma per noi.

Autore Gianni Dell'Aiuto

Gianni Dell'Aiuto (Volterra, 1965), avvocato, giurista d'impresa specializzato nelle problematiche della rete. Di origine toscana, vive e lavora prevalentemente a Roma. Ha da sempre affiancato alla professione forense una proficua attività letteraria e di divulgazione. Ha dedicato due libri all'Homo Googlis, definizione da lui stesso creata, il protagonista della rivoluzione digitale, l'uomo con lo smartphone in mano.