Una volta, quando si stava insieme, si stava insieme davvero. Le parole avevano un peso, gli sguardi un significato, i silenzi un valore. Oggi il silenzio è interrotto da una vibrazione.
Lo sguardo è rivolto verso il basso. Le parole, quando arrivano, si fanno largo tra una notifica e l’altra, tra un messaggio e un meme. Non è nostalgia. È constatazione. E ha un nome preciso; phubbing.
Questo neologismo, coniato per scherzo nel 2012 da un gruppo di creativi australiani durante una campagna pubblicitaria, ha attecchito come un’erbaccia nei nostri salotti, nei ristoranti, nelle camere da letto.
Una parola ibrida che unisce phone e snubbing, telefono e snobbare. In sintesi, ignorare chi ti sta accanto per guardare uno schermo. È diventato così comune da non essere più notato. È una nuova normalità. Una distrazione sistemica e sistematica. Un’abitudine che ha smesso di fare scandalo. E forse è proprio questo il vero scandalo.
Nessuno si indigna più se un padre a cena ignora il figlio per rispondere all’ennesimo messaggio. Nessuno alza un sopracciglio quando un capo guarda il telefono mentre il collaboratore parla. Nessuno protesta se, durante una serata con amici, ognuno è assorto nel proprio microcosmo digitale.
Lo smartphone ha vinto. Senza neanche combattere. E noi abbiamo perso qualcosa che forse non recupereremo più: la presenza.
Il phubbing è un segnale. È il sintomo di una dipendenza che finge di essere scelta. È la resa della realtà davanti alla seduzione dell’altrove. E quel che è peggio: è un comportamento incentivato, progettato, previsto.
Le notifiche, gli aggiornamenti, le interfacce non sono casuali. Sono trappole cognitive studiate per catturare l’attenzione, per tenerci incollati. Per farci sentire vivi mentre perdiamo ogni contatto con ciò che è davvero vitale.
Dietro il phubbing si cela la paura più grande della nostra epoca: quella di essere tagliati fuori. La famosa FOMO, acronimo che fa tanto millennial, ma che in fondo racconta un’angoscia antica. Quella di non essere visti e di non esserci. Ma l’ironia amara è che, nel tentativo disperato di non essere esclusi da ciò che accade altrove, ci si autoesclude da ciò che accade qui, ora, davanti a noi.
Il danno non è solo psicologico, bensì relazionale e strutturale. Tocca le fondamenta della nostra vita sociale.
Prendiamo le relazioni sentimentali. Studi recenti, come quello del professor James A. Roberts della Baylor University, parlano chiaro: quasi la metà degli adulti intervistati si è sentita ignorata dal partner a causa dello smartphone.
E questo ha spesso generato tensioni e conflitti nella relazione. Non servono statistiche per capire ciò che chiunque abbia vissuto una cena in silenzio, a fissare un compagno distratto dal telefono, sa già: non si può amare chi è altrove.
Il phubbing spezza il filo invisibile della comunicazione affettiva. Cancella l’ascolto e deteriora la fiducia. Sostituisce il calore di uno sguardo con la luce dello schermo. E tutto questo è diventata regola non scritta, ma osservata da tutti. In silenzio. Con rassegnazione.
Ma se il danno in amore è grave, quello nei rapporti genitoriali è devastante. Il cosiddetto phubbing genitoriale è una forma moderna e perfettamente tollerata di abbandono emotivo.
Uno studio su oltre 700 adolescenti ha rivelato che oltre la metà di loro si è sentita ignorata dai propri genitori a causa del telefono. Durante i pasti e i momenti di gioco. Durante le occasioni che costruiscono la memoria emotiva di una famiglia. E non è un semplice fastidio: è una ferita nella fiducia, dei figli.
Ma i figli stessi imitano quel comportamento. Diventano a loro volta phubber, chiudendosi nel riflesso di un mondo senza dialogo creando un cortocircuito educativo dove il messaggio è:
Non sei importante quanto questo schermo.
E i bambini lo imparano bene. Lo interiorizzano. Lo replicano fino a diventare adulti alienati, incapaci di reggere uno sguardo, un silenzio, una relazione senza filtro.
Nemmeno il lavoro è risparmiato. Il boss phubbing è l’atteggiamento del superiore che controlla il telefono durante una conversazione con un collaboratore, è un atto di micro-violenza professionale.
Un messaggio chiaro:
Quello che dici non conta.
Il risultato? Perdita di fiducia, disaffezione, disimpegno. Un lavoratore ignorato è un lavoratore umiliato.
Ma nelle aziende, come altrove, tutto tace. Perché lo smartphone, anche in questo caso, ha l’alibi della produttività. Dell’urgenza. Della connessione continua. Ma la connessione, quando è ovunque, non significa più nulla.
Questa non è solo una degenerazione del costume. È un cambio di paradigma. L’essere umano che per millenni ha costruito la propria identità nella relazione, ora la delega a un algoritmo. A un feed. A una timeline.
Ci illudiamo di essere connessi. Ma siamo soli. Siamo spettatori delle vite altrui e comparse nella nostra. E mentre ci affanniamo a non perdere nulla, stiamo perdendo tutto.
Il phubbing è la malattia dell’epoca digitale e anche sintomo di una resa culturale. Di un’incapacità collettiva di stabilire confini, di dare priorità, di difendere la presenza. Siamo disposti a tutto pur di non spegnere lo schermo. Ma cosa resta di noi, quando lo spegniamo? Cosa troviamo in quello spazio che chiamiamo “realtà”?
Forse è arrivato il momento di fare un gesto rivoluzionario. Disarmante nella sua semplicità. Guardare chi ci sta accanto. Spegnere il telefono. Tacere un istante. Lasciar parlare il tempo, la voce, la pelle. Ricordarci che essere presenti non significa solo esserci. Significa esserci per davvero.
E chi non è capace di alzare lo sguardo, oggi, rischia di non vedere più nulla. Né sé stesso. Né gli altri. Né il mondo che continua a esistere, nonostante tutto, al di fuori di uno schermo da sei pollici.
Autore Gianni Dell'Aiuto
Gianni Dell'Aiuto (Volterra, 1965), avvocato, giurista d'impresa specializzato nelle problematiche della rete. Di origine toscana, vive e lavora prevalentemente a Roma. Ha da sempre affiancato alla professione forense una proficua attività letteraria e di divulgazione. Ha dedicato due libri all'Homo Googlis, definizione da lui stesso creata, il protagonista della rivoluzione digitale, l'uomo con lo smartphone in mano.













