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La società è organizzata non tanto dalla legge quanto dalla tendenza all’imitazione.
Carl Gustav Jung

Scritto nel 1967 dal filosofo francese Guy Debord, ‘La società dello spettacolo’ è considerato ancora oggi da molti come un libro cult, un testo quasi profetico che, appena agli albori dell’era televisiva, è stato capace di raccogliere la pervasività dei mass media e presagire quella supremazia delle immagini mediatiche sulla realtà che solo adesso ci pare così evidente nella nostra vita, sempre più indirizzata alle virtù dell’apparire che dell’essere.

Ciò, pur essendo vero, non è che l’aspetto più ovvio, superficiale e recente di ciò che Debord chiama “spettacolo” e che si paventa, piuttosto, come l’attuazione assoluta di un ancestrale percorso sociale verso l’alienazione.

Già dal titolo si capisce che la società dello spettacolo ha autorevoli argomenti predittivi e, a distanza di tanti anni dalla sua uscita, il testo sembra profeticamente anticipare argomenti e tendenze oggi sotto gli occhi di tutti.

In realtà, il periodo in cui il libro fu scritto era pieno di fermenti critici ed il suo pensiero contestatore della società moderna non era l’unico in circolazione.

Quello che si racconta è una cancellazione della personalità accompagnata ad un’esistenza sottomessa tangibilmente alle norme spettacolari, senza più possibilità di conoscere esperienze originali.

I metodi della democrazia spettacolare sono molto elastici, rispetto ai diktat totalitari. Tuttavia, un aspetto caratteristico dei consorzi più dittatoriali viene ripreso perché fondamentale in certi casi, quello del segreto, delle cosiddette società schermo che mettono al riparo da qualsiasi luce i beni concentrati.

Quello a cui assistiamo di questi tempi, è una vita intesa come prodotto: essa è la prima condizione necessaria alla trasformazione da spettatore a performer. Supportato dal fatto che il mercato del lavoro procura in quest’ottica tutto il corollario simbolico necessario: da un lato la costante esaltazione di ritmi, figure professionali e gerarchie lette unicamente attraverso la lente della monetizzazione, della convertibilità del ranking in valore; dall’altro un odio diffuso e accusatorio indirizzato verso chi ha la colpa di esistere al di fuori di questo rigido schema di mercato.

Anche questa logica da spettacolo è entrata a far parte delle dinamiche del nostro quotidiano e del nostro mondo lavorativo. Perché, diciamolo, la precarietà impone al movimento senza pausa, l’idea di performance necessaria spinge gli individui in una spirale di iper-produzione ed iper-attività alienante.

Nel momento in cui ci si ferma, si sente il peso a volte distruggente di una società nata per non arrestarsi mai: ansia, depressione e solitudine che, in tre parole, possiamo definire come i mali del ventesimo secolo.

Nel mondo del lavoro viene affermata una “liberazione del lavoro” che prevederebbe l’aumento del tempo libero: per il filosofo francese non è affatto la liberazione nel lavoro, né liberazione da un mondo foggiato dal lavoro. Nulla dell’attività rubata nel lavoro può ritrovarsi nella sottomissione al suo risultato.

Ed ecco che si entra anche nella liberazione dei costumi, del vivere di ogni uomo: fuori dal concetto ideologico, l’uomo diviene opportunità per se stesso. È merce da vendere: è l’autoritratto del potere all’epoca della sua gestione totalitaria delle condizioni d’esistenza.

L’apparenza feticistica della pura oggettività nelle relazioni spettacolari nasconde il loro carattere di relazione tra individui e tra classi: una seconda natura sembra dominare il nostro ambiente con le sue leggi fatali.

Da ormai qualche anno a questa parte, molti di noi, sono più o meno intenzionalmente immersi in un immenso flusso narrativo che ha come sfondo e mezzo l’universo dei social.

Che si pubblichi con regolarità o meno, Facebook, Instagram, Twitter e via dicendo, ci hanno modificato in “performer” nella creazione di contenuti, autori di un’auto narrazione filtrata in base a quello che decidiamo di mettere in piazza della nostra esistenza.

L’intera vita delle società, in cui governano le più avanzate innovazioni tecnologiche, si rivela un immenso ammasso di performance. Perché, diciamolo, tutto può essere visto come tale, ogni cosa può meritare di essere usata per ampliare la propria reputazione e la propria visibilità.

Quello che viene spesso espresso è ciò che è positivo, ciò che può accrescere ulteriormente la propria immagine, aumentare il ranking del proprio ego. Performare dunque sì, nella traduzione inglese di eseguire, ma anche di dare forma alla propria identità. Come se scolpissimo la nostra essenza, il nostro lato esteriore, lo specchio di quello che vorremmo.

Siamo l’identikit realistico di quello che immaginiamo. Ma è un’identità che sui social è depurata, mi viene questo verbo perché filtrata sarebbe troppo chic, in base a quello che scegliamo di mostrare o di non mostrare e su come farlo, con l’obiettivo di avere una buona stima.

Così diviene che la somma delle valutazioni ricevute dalle performance costituisce la reputazione. Perché la nostra esistenza si fonda nel suo buon nome, da cui restano fuori la sua inclinazione e la narrazione della sua storia.

La società della performance oggi si svela, precisamente, all’interno degli spazi social che conquistiamo, dove si è piuttosto condizionati alla produzione di atti celebri, indimenticabili, che possano essere espiantati dal reale per venire collocati nel virtuale, parlando come se avessimo un pubblico sterminato davanti, costretti alla notorietà.

La performance è, in questo caso, il prodotto per eccellenza, perché replicabile all’infinito con il minimo sforzo. Si mette online un video e questo continuerà a produrre visibilità e, dunque, ad essere monetizzabile, senza che tu debba fare altro.

È la base dell’economia contemporanea e il modello è entrato così tanto nel nostro modo di pensare che crediamo sia quasi naturale, andando a identificare il prodotto con la nostra vita.

In modo spasmodico, questa ossessiva cura di sé è pura progettualità e ha una doppia cifra nella sua interpretazione: da un lato è assolutamente adeguata al sistema che ruota intorno all’economia contemporanea, la performance, a questo proposito, è un medium perfetto, come qualcuno l’ha definita, è il capitale a un tale grado di ammucchiamento da divenire digitale, fluido, olografico, e dunque inesauribilmente replicabile con il minimo sforzo, con un impegno costante ma non eccessivo; dall’altro è quella forza che se esercitata in maniera collettiva è in grado di conservare gli individui in un perenne stato di ansia da prestazione, semplificando il controllo a livello sociale.

Sembra chiaro, però, che la performance eccellente di ieri non può porre al riparo dal fallimento di oggi. Tutto è il contrario di tutto, insomma. Un capovolgimento che è dietro l’angolo. Una singola performance sbagliata e tutto il sistema, tutto il proprio progetto di vita rischia di collassare e di lasciarti in condizioni di estrema difficoltà perché al fallimento si può aggiungere il ridicolo.

Questa società della performance canalizza la forza desiderante in un progetto, che, per quanto facile e mutevole, perviene comunque al suo scopo, ovvero l’esclusione di ogni esternalità che non sia istantaneamente performativa e, quindi, creatrice di valore monetizzabile.

In questi anni sta avvenendo una devastazione di tutte le certezze che hanno sempre accompagnato l’umanità: la memoria del passato non è più scontata, la visione del futuro per alcuni è motivo di esaltazione, per altri è simile a un’apocalisse, e non ci sono premesse condivise su cosa significhi vivere insieme ad altri esseri umani che hanno idee, pensieri e credenze diverse dalle proprie.

È avvenuta un’erosione dei punti di riferimento, degli spazi sacri, dei riti di passaggio, del linguaggio e dei diritti; così che ciascuno va alla ricerca di piccole comunità in cui ritrovare un senso di appartenenza oppure si rinchiude in una bolla che lo faccia sentire al sicuro. Siamo di fronte ad un fenomeno di portata inedita per l’umanità.

È proprio per questa ragione che la rabbia e il risentimento sono fenomeni dilaganti: viviamo in un tempo complesso, impossibile da comprendere fino in fondo una volta per tutte.

Quello che non capiamo tendiamo ad escluderlo, offenderlo, linciarlo e annullarlo in ogni modo anche in maniera aggressiva. Il performer non può sbagliare perché è stato inserito dentro di lui il concetto che sbagliare è deriva, è perdita di tempo, è mancato business.

L’altrove è il suo mestiere: in quel verso lui deve crescere, amare, distruggere, imparare e insegnare. Il metodo cambia sempre ma è semplice nella sua essenza. Ogni cosa che squallida sia deve imperare perché lo spettacolo abbia il suo inizio.

Il palcoscenico è la vita anche se nessuno entra in quel teatro, l’importante diviene l’esserci. Siamo solo all’inizio della nostra fine. Addio uomo, lunga vita al performer!

Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che vedono, ciechi che, pur vedendo, non vedono.
José Saramago 

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.