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Passata la festa gabbato lo santo – spicchio 1/7

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Buon 2025 di nuovo!

Avete già iniziato a mettere in atto qualche punto dei buoni propositi diligentemente scritti per le realizzazioni prefissate per il nuovo anno?

E ci siamo lasciati le feste alle spalle.

Considerando che sono poco da party o grandi feste, personalmente, tra le diverse predilette, ne ho 3 tipologie principali:

a. Un delizioso ozio pensante, leggente, e magari scrivente.

b. Una tavolata di persone – non più di 8 – care e vere, con ottime vivande e bevande.

c. Un viaggio in compagnia di amici stretti – non più di 6 – condito di bellezza e coccole varie.

La tipica festa italiana – più che altro per la ricorrenza di qualche santo – in tempi passati di vita contadina era caratterizzata da diverse peculiarità: dall’indossare il vestito ‘buono’ – per essere ammirati e osservare gli altri – dal ritrovo con gli amici in piazza – magari al bar – dalla processione e dalla banda musicale del Comune, dalla messa in chiesa – doverosamente, anche per chi non ci teneva tanto – dalle bancarelle di prodotti tipici e artigianali – quasi scomparsi – e dal Palo della Cuccagna – ormai introvabile – sulla cui cima erano posti cibi dei quali coloro che ci si arrampicavano faticosamente ne riconoscevano la provenienza, la bontà e il valore.

Ma, principalmente, la festa era caratterizzata dal cibo in tavola, con un menu diverso dal solito, più pregiato – magari di carne – più recentemente di pesce – condiviso in famiglia, riunita appositamente per l’occasione.

In sintesi, la celebrazione del sentimento gioioso del giorno di festa e del riposo, atteso per spezzar le usuali fatiche quotidiane – quindi anche solo la domenica.

La donzelletta vien dalla campagna,
in sul calar del sole,
col suo fascio dell’erba; e reca in mano
Un mazzolin di rose e di viole,
onde, siccome suole,
ornare ella si appresta
dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Il sabato del villaggio – Giacomo Leopardi

Le occasioni straordinarie, i passaggi e le soglie, come abbiamo visto negli articoli delle festività appena trascorse, in un’ottica ciclica della vita, prevedono sempre una marcatura, un’evidenziazione, una benedizione e una consacrazione, anche attraverso il cibo, perché in Italia sappiamo che la rappresentazione della sacralità nelle usanze tradizionali avviene – scusate, perlopiù avveniva – soprattutto attraverso la tavola.

Ancestralmente abbiamo l’impellente necessità di colmare un vuoto. Obbediamo ad una forza d’istinto primario incontrastabile della vita materiale, perseguendo la sopravvivenza, ma anche il piacere.

Cediamo al bisogno viscerale di avere, ricevere, inglobare, sentirci pieni; attraverso l’azione del mangiare, creiamo un contatto profondo con questi bisogni e obbediamo a quel primigenio comando.

Con la scomparsa della fame, e ne ho parlato nell’articolo Filosofia della cucina in lattina, a causa delle svariate disponibilità alimentari, si è visto il graduale allontanamento dall’origine e dal percorso di produzione delle materie prime.

Conseguenzialmente, lo sgretolamento dei significati collegati ai riti e alle feste, non poteva che dichiarare la fine di quel tipo di società – quella ‘del pane quotidiano’ – e ha generato nuove abitudini e dissipato il carattere simbolico e rituale della dimensione conviviale del mangiare e avvilito il rapporto del gradito dovere di offrire e del piacere di accettare, comunque doverosamente, perché se no significava ostilità.

Chi non accetta, non merita!

Il cibo limitato ed essenziale diveniva disponibile e commestibile solo al termine di un lungo e arduo lavoro, molto ben determinato, che rispettava le attinenti necessità e competenze sia della natura che della cultura ed entrambe interagivano implicitamente con rispetto e con una disposizione etica imprescindibile.

Persone e animali, acqua e coltivazioni, comunicavano strettamente, per merito di un sentimento di condivisione e di solidarietà.

Ogni cibo era sacro perché indispensabile. E siccome necessario era sacrale. Per questo non andava assolutamente sprecato.

Ho visto nel giro di pochi decenni il cibo e il mangiare desacralizzati, come tutto il resto.

E per favore, non confondiamo il sacro con il superficiale atteggiamento degli ultimi tempi: riconciliatore, pacificatore e sentimentalistico verso natura ed esseri viventi. La questione è molto più sottile rispetto alla superficiale dualità esposta e mitizzata tra passato e presente o tra natura e artificiale.

Insomma il rapporto uomo – animale – terra sta scomparendo!

Pensiamo a quando si mangia la carne: l’atteggiamento classico generale è diviso in due: o la completa indifferenza per le bestie oppure la filosofia vegetariana.
Fermo restando che ognuno può e deve agire come preferisce, nel rispetto della libertà altrui.

La società attuale ha rimosso la morte e la relativa sacralità in cerca dell’allontanamento dell’idea del dolore e della sofferenza.

La questione parte da noi stessi e si estende, quindi, a tutto ciò che c’è intorno a noi, e così abbiamo sotterrato e cancellato la presenza attiva e solidale del sacrificio e anche della ciclicità. Così non sappiamo più bene cosa ingeriamo e preferiamo nascondere il fatto che sopravviviamo perché un altro essere vivente muore per noi.

Siamo talmente inconsapevoli che non ci siamo ancora accorti che è una vera e propria catastrofe già avvenuta.

L’uomo rilevo che si trovi in una profonda condizione di ‘diaballo’, cioè disunito; ed in particolare ritengo che, così dissociato dalla terra – anche quella coltivata – non sia più in grado di essere collegamento vivente col cielo e quindi anche con i significati spirituali.

È come se eliminato di forza il vettore di collegamento basso, si sia disperso anche quello alto.

Si patisce enormemente la separazione dalla responsabile gestione del proprio tempo e del proprio spazio e, lontano dalle proprie radici naturali, tutto ciò produce alienazione, che sfocia nell’odierno trauma identitario umano.

Per carità, è sempre successo, anche nelle società tradizionali che, ad esempio, i pescatori dessero ai ricchi il loro pescato migliore, come gli agricoltori non mangiassero il pane fatto di grano, ma adesso c’è addirittura lo spopolamento dei centri città per far posto al turista e guadagnarci denaro.

Inoltre, c’è l’esponenziale perdita del senso delle attività umane sempre più eterodirette, imposte da leggi economiche che sanno solo obbedire a sé stesse.

Alla faccia dell’arduo lavoro: è necessario anche rilevare la freddezza, l’asetticità e il distacco che implica il semplificato click d’acquisto con metodi di pagamento già registrate e pronte all’uso.

Nuove forme di asocialità e di non convivialità che si sono affermate soprattutto nelle metropoli e nelle città e in alcuni casi di piccoli centri disumanizzati e ridotti a scenografiche costruzioni.

E per il momento evito di citare l’iperbole del periodo pandemico.

Non bisognerebbe mai dare niente per scontato, neanche le cose che consideriamo più abitudinarie: una parola, un abbraccio, una passeggiata… La vita che stiamo vivendo ora ce lo sta insegnando.
Vanessa Farris

Parlavamo all’inizio di bancarelle.

E i mercati rionali dove sono? E dove finiranno gli ultimi rimasti?

Quei teatri alimentari che mettevano in dialogo avventori e venditori con l’incontro e lo scambio, dove si potevano misurare profumi e colori veri… dove c’era la cordialità della parola e dell’assaggio prima dell’acquisto.

Ed il cucinare e mangiare all’aperto, in piazza, per strada, in campagna?

Del mercato è rimasto solo quello economico, che scientificamente viene programmato e analizzato al computer.

Una camera mortuaria dei generi alimentari nella quale è vietato toccare, è vietato odorare le nature morte, che così non possono risvegliare alcun istinto di sopravvivenza e nessuna comunicazione ai sensi più distraibili e superficiali come occhi e orecchie.

Oh, ma mi ricorda qualcosa… Guanti, mascherine…

Partiamo dalle emozioni, passiamo al nostro sistema – anche quello immunitario – e ritorniamo alle emozioni…

Perlopiù vedo individui senza umanità trasformati dal profondo dell’essenza, passati da produttori e attori di sentimento ad essere consumatori automatici e spettatori passivi, e creduli a ogni cosa.

Attaccati al palo, quale non si sa, non quello della Cuccagna.

Assuefatti al qualunquismo e lassisti a quasi tutto. E nei peggiori casi, fiancheggiatori o perfino finti oppositori di lobby, al costante e indefesso lavoro per papparsi tutto il sistema.

E anche di questo ne parlerò spero più chiaramente nei prossimi articoli.

La Cuccagna è rimasta solo nelle televisioni e in Internet, che però occultano i significati profondi, i processi produttivi veri, di legame e che, di fatto, finiscono con l’annullare gli aspetti emozionali, rituali e conviviali.

Siamo agli ultimi ostacoli al controllo totale delle menti e delle anime.

Come uscire dalla crisi culturale e morale ancor prima di tutte le altre crisi?

Come fare a vedere uno sforzo collettivo, un risorgimento coscienziale, col recupero dei nostri valori nazionali identitari?

Come fare a recuperare il proprio nome, i propri antenati, la propria famiglia, la propria casa, la propria lingua, la propria storia?

Il percorso dove ci porterà?

Stay tuned! Restate sintonizzati e direi anche sincronizzati!

Autore Investigatore Culinario

Investigatore Culinario. Ingegnere dedito da trent'anni alle investigazioni private e all’intelligence, da sempre amante della lettura, che si diletta talvolta a scrivere. Attratto dall'esoterismo e dai significati nascosti, ha una spiccata passione anche per la cucina e, nel corso di molti anni, ha fatto una profonda ricerca per rintracciare qualità nelle materie prime e nei prodotti, andando a scoprire anche persone e luoghi laddove potesse essere riscontrata quella genuina passione e poter degustare bontà e ingegni culinari.