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Nisida: educare e (ri)creare

Nisida


Da Gomorra al laboratorio teatrale, verso un nuovo inizio: scopriamo com’è la vita di un carcere minorile

Non ero mai stato sull’isola di Nisida prima d’ora: il panorama suggestivo, l’aria salmastra, mi hanno impressionato ed accompagnato lungo ogni curva del ripido “serpentone” che porta in cima, dov’è sita la struttura cui l’isolotto deve maggiormente la sua fama.
Non lo diresti che un posto dalla bellezza così pronunciata, vagamente selvaggia, possa ospitare un carcere.
Sono stato a Nisida per una conferenz… No, “conferenza” è il termine meno adatto: l’occasione aveva decisamente i toni di un piacevole colloquio tra studenti del corso di Giurisprudenza e quelli di Scienze del servizio sociale della Federico II, accompagnati dal comune docente, Dott. Pasquale Troncone, ed il vicedirettore dell’Istituto Penale Minorile, Dott. Ignazio Gasperini.

A questo punto, se si trovasse a leggere l’articolo, Gasperini probabilmente rimarcherebbe, come fece con la platea subito dopo le presentazioni, che non è “vicedirettore” il titolo di cui preferisce fregiarsi, egli è, prima di ogni altra cosa, “un educatore dell’Istituto”.
Prima di procedere, qualche dettaglio chiarificatore è d’obbligo.

L’ordinamento penitenziario italiano (L. 354/19795) prevede che i propri istituti vengano applicati anche nei confronti dei minori, fino a che non sarà promulgata una legge specifica (art. 79): una promessa rimasta lettera morta. Applicando sic et simpliciter ai minori il regime penitenziario previsto per gli adulti, il legislatore non ha tenuto conto che i minorenni hanno bisogno di un trattamento rieducativo ad hoc, calibrato sulle loro esigenze di corretto sviluppo psicologico, al fine di un completo reinserimento sociale. Pertanto, la Corte Costituzionale si è adoperata per adattare, «nel rispetto dei principi cardine di tutela penale del minore» il sistema previsto per gli adulti «alle prospettive di recupero del soggetto (minorenne) deviante».

Su questa scia, la Legge Gozzini (L. 663/1986) attua concretamente il principio costituzionale secondo cui le pene devo primariamente tendere alla rieducazione del condannato, introducendo misure alternative alla detenzione per “soggetti meritevoli”.

In questo contesto, si definisce ulteriormente la figura dell’educatore, che acquisisce un ruolo-chiave nella dinamica penitenziaria minorile: egli è lo “specialista del comportamento”, l’operatore che più di ogni altro contribuisce alla “rottura” di quello straniante, come può esserlo soprattutto per un ragazzino, artificio della dimensione-carcere e alla creazione del giusto equilibrio delle dinamiche di risocializzazione.
Gasperini, come ogni altro educatore, è l’“autorità“ per questi ragazzi, ma anche un sostegno, un confidente, un aiuto sincero nel processo di crescita intrapreso da ognuno di loro.

Chi sono questi ragazzi? Anzitutto, quelli provenienti dai quartieri “difficili” di Napoli, i vari Scampia, la Sanità etc. e della provincia, lo “zoccolo duro della devianza minorile”. Tuttavia, ci assicura Gasperini, la criminalità minorile non è unicamente appannaggio di queste zone: tra i detenuti si contano anche ragazzi provenienti da famiglie “perbene”, per così dire; che la cosa non sorprenda o faccia scadere in facili moralismi, fosse anche solo per il fatto che “perbene” poco o nulla dice sulla genuinità dell’ambiente familiare. Ed è proprio qui che si può riscontrare una particolarmente evidente ed iniqua crepa del sistema: questi ultimi ragazzi sono decisamente “favoriti” nell’irrogazione della misura penale/cautelare, avendo delle strutture portanti pregresse, reputate “sufficienti”.

Nell’adottare la misura del caso, infatti, il magistrato deve tener conto delle esigenze personali e familiari dell’imputato: potrebbe quindi scegliere di affidare il ragazzo alla famiglia, per il sol fatto che egli abbia, alle spalle, le risorse e le possibilità adeguate, teoricamente, per un processo di recupero e rieducazione.
C’è quindi una fetta di utenza molto ampia, in effetti, se consideriamo anche i ragazzi arrestati per fatti di lieve entità, quelli in attesa di processo o in attesa di sua conclusione, quelli assegnati ad altri istituti, che sfugge alle maglie dell’Istituto Penale, applicato in via meramente residuale. Nisida ospita circa 40-50 ragazzi, in tutta Italia istituti simili raccolgono soltanto poche centinaia di detenuti.

Altro fenomeno per il quale l’ordinamento mostra una certa inadeguatezza è quello dei giovani stranieri, i cosiddetti “ragazzi non accompagnati” che, per un motivo o per un altro, si trovano sottoposti a regimi meno favorevoli dei coetanei italiani. Eppure, si dovrebbe prestare più attenzione a questo genere di utenza, considerando, in particolare, che al Nord costituisce quasi il 90% dei detenuti. Al Sud, invece, la devianza minorile assume connotati di forte territorializzazione: non è assolutamente un caso che si parli di zone ad alta concentrazione di criminalità organizzata. I rapporti dei ragazzi con le “mafie” sono profondamente cambiati negli ultimi anni: assoldati da piccoli, a 23-25 anni un ex “baby” camorrista può essere già boss di un clan criminale. In alcuni casi, si parla anche di qualcuno che dall‘Istituto Penale Minorile ci è passato: ragazzi che, all’epoca, non si sarebbe detto avessero la stoffa del gran criminale, ai quali “non ci si dava cinque euro in mano”; eppure, a sentire i ragazzi che da quel mondo, oggi, ci arrivano, ci si rende conto che “le cose cambiano, “duttò”: i giovani sò più coraggiosi dei vecchi, non vogliono compromessi”.

Le atmosfere di “Gomorra _ La Serie” non sono così lontane. Altro cambiamento degli equilibri, la quasi totale scomparsa del “battitore libero”, come lo definisce Gasperini, il ragazzo che commette crimini, piccoli o meno, per conto proprio; ora, anche chi fa “semplicemente” scorribande nel proprio quartiere, lo fa con il beneplacito del boss: non fa parte della criminalità organizzata, ma ci ha stabilito un legame.
Di fronte ad esigenze sempre più pressanti e drammatiche, vanno approntate le giuste strategie. Due sono le linee guida del funzionamento dell’Istituto.

Anzitutto, vi è una fondamentale funzione di ordine e sicurezza da garantire. Una struttura del genere, per poter operare correttamente, richiede anzitutto regole rigorose. Il vicedirettore Gasperini illustra la giornata tipo dei ragazzi di Nisida, rigidamente organizzata in ogni suo momento: dalla sveglia presto e le varie attività mattutine, laboratori, scuola, a quelle pomeridiane, fino alle chiusura delle stanze poco dopo le otto, quando ormai la giornata è finita e “devi solo farti del carcere”; quattro momenti importanti scandiscono le fasi della giornata, i quattro pasti, consumati in comune. Quest’ultimo è un aspetto particolarmente importante : i ragazzi devono stare tutti insieme, salvo vi siano motivi gravi e concreti per decidere altrimenti, dividerli non significherebbe altro che riconfermare le loro peggiori inclinazioni; screzi, conflitti, fino a comportamenti sanzionabili dal consiglio di disciplina sono, alla fin fine, dinamiche “ordinarie“, e comunque non troppo diverse da quelle che chiunque affronta nella propria vita di relazione, al lavoro, a scuola; la differenza è che dalle nostre antipatie e gli screzi possiamo staccarci quando torniamo a casa, per loro questo non è possibile. È una vita, la loro, sul filo dell’incertezza di poter fare o meno qualcosa senza un’apposita autorizzazione: è, comunque, vita di carcere.

Ma non è tutto qui, ovviamente. Queste giornate così rigidamente scandite non sono fatte soltanto di orari su una scheda, ma di contenuti e, spesso, risultati: occorre che ogni momento, ogni attività abbia un proprio posto in un percorso di affinamento, di crescita la parola tecnica, “rieducazione”, non è particolarmente amata dagli addetti ai lavori, forse a buon ragione. Questi ragazzi hanno bisogno di qualcosa che li induca alla riflessione sul loro precedente stile di vita, qualcosa che faccia capir loro a cosa vanno incontro; devono essere aiutati, da altro punto di vista, a conoscersi meglio, a scoprire e coltivare le proprie qualità e potenzialità, delle quali, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono consapevoli.

Il vicedirettore porta l’esempio di un giovane ragazzo marocchino vincitore di una borsa di studio per poter studiare presso l’Accademia per parrucchieri a Napoli, talento scoperto proprio negli anni di detenzione. Lo sport aiuta, crea dinamiche di gruppo; i corsi, i lavori ed i progetti che i ragazzi producono danno il senso dell’impegno, del lavoro. E i ragazzi di Nisida sono estremamente produttivi: attività teatrali, pubblicazioni annuali di libri curati dalla scuola con la collaborazione di scrittori famosi, apertura di strade e sentieri sull’isolotto per arrivare al mare, cura di orti e agrumeti, per dare un’idea delle molte attività che prendono forma nell’Istituto. Addirittura, scoperte sorprendentemente interessanti: l’attività del laboratorio edile ha permesso di rinvenire antiche mattonelle, un vespasiano, un’intera sala, un’antica cisterna, ora adibita all’attività teatrale, riportando alla luce un mondo che si supponeva esserci, data la storia secolare di Nisida, ma del quale nessuno aveva ancora avuto conoscenza.

L’Istituto aiuta, inoltre, molti ragazzi a conseguire quantomeno il diploma di terza media, ma sono pochi quelli che proseguono gli studi: la scuola resta per loro un ostacolo quasi insormontabile. La scuola, nella loro vita civile, ha rappresentato il primo incontro con lo Stato, un impatto certamente conflittuale. La difficoltà ad inquadrarsi nel mondo dell’istruzione e l’ostilità verso di esso, a volte causata anche da scuole che, per onor del vero, non hanno saputo accogliere adeguatamente ed aiutare soggetti più difficili, in breve si tramutano in avversione verso il concetto di istituzione, e, quindi, contro lo stesso educatore quando entrano nella struttura penitenziaria: egli è, infatti, un organo di quello Stato con quale hanno difficoltà a confrontarsi. È con il rispetto, il rigore e la fiducia che l’operatore deve abbattere questo muro: compito difficile, ed in quanto tale cruciale.

Sono questi i difficili equilibri con i quali il microcosmo Nisida deve confrontarsi ogni giorno; le lodi, l’esser definiti “Istituto pilota”, dice Gasperini, da un lato inorgogliscono, ma dall’altro fanno aggrottare la fronte: “Quel che facciamo è ciò che impone la legge, ‘semplicemente’ il nostro dovere”; e quando il dovere viene visto come merito da celebrare, in genere, vuol dire che nel contesto generale le cose vanno assai male.

Prima di separarci, ho domandato al vicedirettore quali siano le prospettive di questi ragazzi, per lo più giovani uomini entro i 25 anni, una volta usciti di prigione e quali fossero i loro obiettivi, i loro sogni. La maggior parte, racconta Gasperini, desidera prevalentemente trovare lavoro o continuare a lavorare, magari coltivando quegli stessi talenti che hanno riscoperto durante la detenzione; qualcuno vuol tornare nel proprio Paese per riabbracciare la famiglia, altri vogliono allontanarsi per un po’ da Napoli, staccare e costruirsi la vita sul proprio lavoro.

Ho pensato, onestamente, che fossero risposte un po’ banali, di rito.
Mentre ridiscendevo il serpentone per lasciare l’isolotto, ho realizzato quanto la normalità, la banalità del quotidiano, lo stesso concetto della quotidianità e delle consapevolezze che porta con sé, possano essere conquiste enormi per la maturità di questi ragazzi, e quanto fossi stato supponente al riguardo.

Autore Mario Marino Cerrato

Mario Marino Cerrato (Napoli, 23/01/1993), studente di Giurisprudenza presso l’Università Federico II di Napoli. Amante del cinema e appassionato di viaggi.

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