Home Rubriche Lo sguardo altrove La parola agli incompetenti

La parola agli incompetenti

672
parola - silenzio


Download PDF

Il problema dell’umanità è che gli stupidi sono molto sicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi.
Bertrand Russell 

Per quanto contorto, pare chiaro o, almeno, lo è per me, che un sistema in cui tutte le persone si esprimono è preferibile ad uno in cui la comunicazione è in mano a un’élite, un’aristocrazia del tutto imprevedibile.

È vero che comunica chi ha il potere, lo sappiamo o lo temiamo, sono punti di vista, e, proprio per questo, dobbiamo imparare a usare la voce pubblica: non credo che sia un processo degenerativo, anzi. La forza l’hanno data, inverosimilmente, proprio i social.

Oggi la parola è semplice, veloce e virtuale. Credere nella sua importanza è fondamentale, soprattutto in un’epoca come la nostra in cui si tende alla semplificazione e alla velocità: dove il messaggio deve arrivare alla luce del pensiero.

L’impoverimento del linguaggio, dovuto anche al dibattito pubblico sempre più caratterizzato da slogan facili o confronti poveri di contenuti e di espressioni, è diventato un fenomeno degno di attenzione.

Diversi sono gli studi che si concentrano sulla scomparsa di voci e tempi verbali che renderebbe più complessa l’elaborazione del pensiero critico, ancorandolo, per di più, al presente, al momento.

Ecco come attraverso l’utilizzo dei vocaboli veniamo, più o meno inconsciamente, condizionati a fare qualcosa. Questo lo sanno bene i professionisti del marketing e della persuasione.

Ma siamo anche consci che il linguaggio è pieno di concetti, classificazioni e associazioni falsi. Inoltre, le caratteristiche essenziali del pensare ordinario, la sua vacuità e la sua imprecisione fanno sì che ogni termine possa avere migliaia di significati differenti, secondo il bagaglio di cui dispone colui che parla, e l’insieme di associazioni in gioco in quel contesto.

C’è anche un rischio: la parola è un’arma che, se messa sulle labbra di tutti, può scatenare oscene e violente guerre. E se va a tutti, senza un filtro, senza creare l’aristocratica necessità di un argine che possa evitare stragi di incompetente ed insensata valanga instupidita, il pericolo di un oggettivo dilagare incomprensibile e velenoso, attecchirà in ogni dove, facendo emergere mostruosi scenari di incomunicabilità, ad appannaggio di una rudimentale bellezza della banalità.

Guardiamoci intorno: quanti sono gli individui che intervengono nelle discussioni senza alcuna competenza specifica pensando di averla?
Quanti criticano gli esperti con un dall’alto di incrollabili certezze?

Già Socrate, nel V secolo avanti Cristo, avverte che è sapiente solo chi sa di non sapere, non chi s’illude di sapere e ignora, così, perfino la sua stessa ignoranza. Ancora prima, il faraone Akhenaton, nel XIV secolo avanti Cristo, afferma che il folle è ostinato e non ha dubbi, conosce tutto tranne la propria ignoranza.

All’incompetenza, spesso, si accompagna la supponenza e gli incompetenti nutrono un’incondizionata fiducia nelle proprie capacità. Non hanno percezione dei propri limiti, ignorano i propri errori, fanno fatica a riconoscere la competenza altrui e possono arrivare a disprezzarla.

Questo tipo di soggetti non solo sono inefficaci nelle strategie che mettono in atto nel perseguire i propri obiettivi, ma, forse ancora peggio, non sono in grado di rendersene conto e ritengono di essere migliori degli altri.

Questo fenomeno prende il nome di ‘effetto Dunning – Kruger’, dal nome dei due psicologi della Cornell University che lo identificarono in un celebre studio del 1999, ‘Unskilled and Unaware of It’.

Dunning e Kruger, inoltre, hanno dimostrato che gli incompetenti sono inconsapevoli perché non hanno le capacità metacognitive per valutare le abilità, sia proprie che degli altri.

In uno degli studi effettuati, alcune settimane dopo il primo test, gli studenti più bravi e quelli incapaci furono richiamati dai ricercatori per visionare e valutare le risposte al questionario che erano state fornite da alcuni dei loro compagni.

Come prevedibile, l’analisi di quelli bravi fu migliore. Se gli incompetenti non sono in grado di determinare le capacità degli altri, non sono neppure in grado di utilizzare lo strumento del confronto per rivedere la propria visione di sé stessi e apprendere qualcosa.

Diciamolo, ci siamo abituati un po’ troppo a parlare e a scrivere senza fermarci prima un attimo a pensare e, così, rischiamo di far sempre più danni. Perché le parole non sono mai solo parole, si portano dietro visioni differenti della realtà, tutti i nostri sogni e le nostre certezze: ovvio che possano comportare conflitti e fare male. Ma possono anche generare empatia e fare del bene, se impariamo a usarle meglio.

Il lemma, allo stesso tempo, è minima unità significativa in una frase ed espressione di ogni pensiero, idea, stato d’animo. Ci rende ciò che siamo, esseri senzienti impantanati in una moltitudine di situazioni che riusciamo ad illustrare attraverso semplici suoni ricchi di significato.

Come ogni fenomeno umano anche la parola e il suo utilizzo sono in una continua metamorfosi. Ci conducono dagli albori dell’umanità, da suoni indefiniti a insieme di lettere significanti.

La parola va data ai soli competenti?

Non sarebbe l’ideale democratico che ci aspettiamo come volontà di una comunità che, nel linguaggio, ha imparato a vivere ed unirsi, ma nelle parole di un uomo si possono trovare mille ed uno virus omicida.

Sono anche dolorose quando sono strumenti d’odio e armi di annichilimento, quando divengono dispotiche ed incitano a cercare un nemico da combattere. Con esse si sono avviate guerre, forma becera di rapporto tra Stati o fazioni contrapposte.

Sono contradditorie quando i conflitti vengono presentati come soluzioni, irregolari, quando si scambiano i significati e le promesse di gloria e vittoria diventano l’imboscata per istigare la aggressività, oppure sono discriminanti, quando sono preda di menti razziste, che vedono il nemico nel colore della pelle, nell’orientamento sessuale o in un credo differente.

Hanno tante facce e tante maschere e, una volta pronunciate, creano una realtà tangibile, assumendo una vita propria. Quelle positive nutrono, guariscono e ingrandiscono, mentre quelle negative, apparentemente, non lasciano né ferite né lividi, ma, gradualmente, avvelenano e uccidono l’anima.

Sono importanti, perché è in esse che ci definiamo e qualifichiamo gli altri, nel ruolo e in quello che siamo, nei nostri valori e in quello che proviamo.

Ed è sempre in esse che diciamo agli altri non solo ciò che già siamo, ma ciò che vogliamo essere, anche inconsapevolmente, senza renderci conto di quanto possiamo svelare di noi stessi e del mondo nel quale crediamo, usando un termine e non un altro.

E allora la parola a chi?

Se decidessimo di darla solo alle persone competenti, dovremmo prima ricordarci che quando si trovano di fronte ad un nuovo progetto o ad un nuovo lavoro, tendono a cadere vittima della sindrome dell’impostore, ad adottare un atteggiamento dubbioso e prudente e, quindi, molto spesso, ad essere giudicate superficialmente come insicure.

Magari oggi con equilibrio e buonsenso potremmo affidare la parola ad un sano silenzio. Perché nell’era del digitale e del sovraffollamento di contenuti, ridare al silenzio un ruolo centrale nella comunicazione è un po’ come il non mangiare in una dieta bilanciata.

È fondamentale trovare un equilibrio tra il consumo di parole in ingresso e in uscita e i sacrosanti momenti di pausa. Il silenzio è il momento del dubbio e della riflessione, quello in cui la parola si rigenera e acquista valore.

La grande sfida, dunque, è quella di diventare sempre più consapevoli del modo in cui usiamo la parola attraverso i social, per rimanere soggetti responsabili, costruttori di realtà e legami.

L’ignoranza genera più fiducia della conoscenza.
Charles Darwin 

Print Friendly, PDF & Email

Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.