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La frattura

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Frattura


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In questi giorni, meno furiosi ma senza dubbio sempre più ardui in una sorta di sopravvivenza e di temeraria attesa verso una libertà su fiducia, stiamo capendo quanto l’emergenza sanitaria abbia inciso nella nostra quotidianità.

Questo nuovo virus non potrà essere ignorato e ciò muterà notevolmente i nostri comportamenti. Forse, lo capiremo soprattutto nei prossimi anni quanto ha influito nel determinare un nuovo stile di vita e una diversa attitudine a rispondere agli stimoli e alle sfide dell’esterno.

Va da sé che gli esseri umani non sono capaci di prevedere il futuro della loro società. Possono, però, tentare di elaborare delle ipotesi sulle predisposizioni sociali e non in corso per cercare di capire quali abbiano maggiori probabilità di presentarsi nel breve periodo. L’unica certezza diviene paradossalmente un’ammissione di incertezza: niente sarà come prima.

Una prospettiva che in questi mesi di quarantena, vaccini e dati statistici mette d’accordo chiunque: leader politici e speculatori, sociologi e influencer, persone dello spettacolo e studenti, imprenditori e casalinghe.

È l’identico concetto diffidente che ha inaugurato fasi storiche come il dopoguerra, il post 11 settembre o l’avvento dell’euro, ma che incollato al quotidiano ci obbliga a mutare l’idea del futuro. Dovremo abituarci a scambiare tempo con sicurezza, anteporre il binomio diffidenza – distanza alle abitudini post-globalizzazione, convivere con gli altri, intraprendendo una sorta di prevenzione quotidiana come un costante “chi va là”.

Dobbiamo anche immaginare o avere la presunzione di pensare che nulla possa trasformare noi e il nostro essere. Ci sono psicologi che affermano che tanto più forte è il trauma, tanto più scattano una serie di reazioni che si chiamano “principio speranza”, ovvero quel desiderio di uscire fuori dalla difficoltà così forte da spingerci ad avere una reazione decisa, cioè cercare di lasciarsela direttamente dietro alle spalle. Allora, la memoria di essa, anche il celebrarla, serve per dimenticarla. Sono forme ostentative della rimozione.

Sappiamo che le catastrofi incitano psicosi, ma è altrettanto vero che ad imporsi poi è il desiderio di oltrepassare il buio e la paura. Abbiamo l’esperienza di grandi reazioni umane che riguardano sciagure, guerre, carestie. Sappiamo bene come nella storia i grandi traumi si riassorbano. Il problema, a questo punto, è come far fruttare nella fase attuale una disgrazia.

In effetti, è bastato slacciare la morsa affinché le persone sentissero il bisogno di tornare al prima. Se vogliamo usare con estrema lucidità la nostra consapevolezza, pare, forse, più anomalo come sia stato possibile accettare tutte le limitazioni, interiorizzandole nelle nostre vite come fossero ordinarie.

Il Coronavirus, per molti, è solo una malattia raccontata attraverso dati. Vi sono state immagini impressionanti che hanno mostrato esattamente ciò che era, ma, nell’insieme, siamo abituati ad entrare raramente nella sofferenza personale dei singoli.

Tutto si racchiude proprio nell’innata voglia e determinazione di trovare una ragione che possa aiutarci a svoltare, a reagire: a pochi giorni dell’evidenza della portata tragica degli eventi si è discusso subito di ricostruzione, via d’uscita, soluzione, salvezza. E si è detto che, probabilmente, quest’esperienza ci servirà ad essere più buoni, più efficienti, più capaci di affrontare le difficoltà, più in grado di riconoscere gli errori che la società occidentale ha commesso.

A guardare bene, una catastrofe poteva essere utilizzata per ripensare il mondo ed intervenire in maniera diversa. Più del meccanismo di rinascita, invece, ha prevalso quello dell’autoconservazione, autoprotezione delle pratiche e dei sistemi della tradizione. Come se venisse annullato il desiderio di rinnovamento e rigenerazione e l’uomo non sapesse imparare dalle sue sconfitte o dalle delusioni, come se non fosse in grado di riconoscere un’alternativa al suo miglioramento.

Partiamo dal presupposto che se avessimo mai l’opportunità di essere migliori, la civilizzazione moderna non avrebbe le peculiarità e l’esito che ha avuto nella storia dei secoli. Essenzialmente non esiste un modo di essere migliori: potrebbe esserci una variazione della natura prepotente della civiltà umana.

Per questo qualcuno afferma che la nostra memoria è capace di rigenerarsi, proprio perché abbiamo alle spalle grandi pandemie, ma sono state dimenticate. O solo perché, con il tempo, abbiamo imparato a coesistere con quello che ci stava cambiando, con ciò che si era annidato; come per il virus, abbiamo fatto gli anticorpi, pur sapendo che dentro di noi sarebbe restato l’ospite che non avremmo più debellato ma con il quale avremmo imparato a convivere, dimenticandoci l’uno dell’altro.

Nell’eterno bisogno di sopravvivenza che le grandi disgrazie producono, è difficile che l’essere umano, singolo e in gruppo, aggredisca il trauma infrangendo davvero con la sua identità precedente. Semmai, tali situazioni consolidano quell’identità. Non sono un mutamento, ma una conferma. Non sfasciano una tradizione, ma la consolidano.

Altro punto su cui riflettere è che le pandemie del passato, presumibilmente, non sono accadute in momenti di così straordinario bombardamento mediatico come ovviamente il nostro presente. In qualche modo erano episodi preoccupanti, ma non finivano per spezzare completamente l’universo informativo. Ora si parla e ci si confronta solo sul Covid.

Abbiamo dimostrato, alla fine, di saper tollerare questa sorte, anche se si sta sempre più sbriciolando il fronte della sopportazione e non sappiamo fino a che punto continueremo ad accettare delle forti restrizioni alla nostra vita privata. A lungo termine, le energie psicologiche necessarie per adeguarsi tendono ad esaurirsi e la capacità di adattamento s’indebolisce.

Ciò nonostante, stiamo resistendo: solo perché la speranza è che trascorso lo choc del contagio, gran parte delle tendenze precedenti riafferreranno il loro corso e saremo più consapevoli che al centro del nuovo paradigma umano ci sarà la riscoperta della complessità. Questo ci imporrà sia di pensare ed operare in termini di intelligenza collettiva, che di favorire una robusta resilienza della natura. Perché da oggi abbiamo il compito di affrontare i grandi problemi non in maniera solitaria.

È evidente che non dovremo abbandonare le competenze individuali, ma semplicemente integrarle. Solo il lavoro di squadra permette di entrare nel merito di un insieme così intricato. Quello che ancora in parte manca è la capacità culturale di comprenderle.

Sarebbe opportuno e non è impossibile che la lettura interpretativa del sapere in termini di intelligenza collettiva e di rinnovata consapevolezza spirituale possa contribuire a dare maggiore credibilità proprio alla scienza e alla competenza. Ne verrebbe fuori una visione del mondo meno elitistica e specialistica e più partecipata da forme di abilità differenti, in cui le humanities avrebbero un loro ruolo significativo.

Abbiamo vissuto anni in cui si è esasperata una frattura profonda tra individualismo e senso della comunità. Ora dovremmo sforzarci, con maggiore coscienza, di annullare ogni gesto incompiuto di insano personalismo a favore di una maggiore opera collettiva, altrimenti la spaccatura diverrà insanabile e ogni possibilità di rinnovamento solo una sterile e incauta speranza che potrebbe rivelarsi più fatale di ogni virus. Perché l’uomo ha imparato a superare la pandemia ma, spesso, non ha saputo gestire la maledizione del suo stesso egoismo.

Possiamo perdonare un bambino quando ha paura del buio. La vera tragedia della vita è quando un uomo ha paura della luce.
Platone

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.