Cosa direste se su Internet si spacciasse droga alla luce del sole, senza alcun pudore? Già lo fanno.
Se cominciassero a circolare foto pedopornografiche? Ma già accade.
Se si organizzassero gruppi per bullizzare minacciare i vostri figli, portandoli addirittura al suicidio? Purtroppo, già accade.
Aggiungiamo le truffe con cui vengono svuotati i conti correnti bancari, i furti di identità e la disinformazione.
Qualcuno ha scritto sui social che caffè e limonata vanno benissimo per curare i tumori anche i tumori e potete immaginare le tragiche conseguenze. Per seguire cure palliative in molti hanno abbandonato o ritardato i trattamenti medici convenzionali.
E cosa possono pensare le famiglie di chi è morto per una challenge su TikTok?
È la realtà che abbiamo davanti, una rete dove la mancanza di controlli potrebbe avere trasformato un idea di libertà in un brutto sogno se non un vero e proprio incubo.
Negli anni 90, il cyberspazio era visto come un parco giochi libero da ogni imposizione: John Perry Barlow, attivista americano noto anche per avere scritto canzoni per i Grateful Dead, scriveva la sua Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspazio, proclamando un mondo digitale dove l’uomo, senza l’ingerenza dei governi, poteva esprimersi in piena libertà, guidato dal consenso collettivo e dalla creatività.
Ma, di fatto, siamo arrivati a un punto in cui quel sogno utopico si è scontrato con la cruda realtà: il cyberspazio, lasciato a sé stesso, ha dato adito non solo all’innovazione, ma anche a reati e comportamenti non proprio esemplari.
A tutto ciò possiamo aggiungere il mercato dei dati personali, una violazione continua della privacy che mina i diritti fondamentali. Internet, senza regole, sarebbe come un moderno Far West.
E adesso c’è anche l’Intelligenza artificiale da tenere a bada: in Europa c’è il GDPR, in California una legge a protezione dei dati, ma bastano davvero?
Sono sicuramente passi avanti, ma non risolvono un problema che va ben oltre la semplice applicazione delle norme tradizionali.
È come se ci fossimo aggrappati alla Carta dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, pensando che bastasse per proteggere chi naviga online, senza renderci conto che il ‘navigante’ non è semplicemente la persona fisica, ma qualcuno armato di uno smartphone, una vera e propria arma a doppio taglio.
Lo stesso dispositivo, infatti, può essere usato per farsi male o, peggio ancora, per fare del male agli altri. E non basta il cappello da cowboy o una stella da sceriffo per mettere ordine in questo saloon digitale: è necessario passare a una dichiarazione essenziale dei diritti del navigante, un patto internazionale che vada ben oltre le leggi nazionali.
Se uno è criminale o folle nella vita reale, lo resta anche in rete; le norme penali dei singoli Stati sembrano poca roba rispetto alla vastità del pericoloso mare in cui navighiamo; basti pensare che l’Internet raggiungibile tramite i normali motori di ricerca è meno del cinque per cento di tutta la rete.
Ormai lo dobbiamo accettare. Ci serve un quadro normativo globale, che tuteli ogni utente e imponga regole chiare in un mondo dove l’assenza di limiti trasformerebbe Internet in un campo da battaglia incontrollato.
Solo così potremo evitare che il sogno di una rete libera diventi l’incubo di un Far West digitale, dove la legge del più forte regna sovrana.

Autore Gianni Dell'Aiuto
Gianni Dell'Aiuto (Volterra, 1965), avvocato, giurista d'impresa specializzato nelle problematiche della rete. Di origine toscana, vive e lavora prevalentemente a Roma. Ha da sempre affiancato alla professione forense una proficua attività letteraria e di divulgazione. Ha dedicato due libri all'Homo Googlis, definizione da lui stesso creata, il protagonista della rivoluzione digitale, l'uomo con lo smartphone in mano.