Abbiamo appena incontrato un’intelligenza aliena, qui sulla Terra. Non sappiamo quasi nulla di essa, se non che potrebbe distruggere la nostra civiltà.
Sembra la battuta di un film con effetti speciali, navicelle spaziali e alieni verdi. Invece è stata scritta da uno storico, un professore in carne e ossa, che si chiama Yuval Noah Harari.
Uno che i libri li scrive, non se li fa scrivere da ChatGPT. E se proprio vogliamo dirla tutta, quando lui scrive, il mondo lo ascolta.
E questa volta ci ha detto una cosa scomoda, fastidiosa, di quelle che disturbano il nostro sonno tranquillo da utenti digitali: abbiamo creato qualcosa che non capiamo più.
Per molti l’intelligenza artificiale è una trovata simpatica. Un aiutante instancabile per cercare su Google, sistemare un curriculum, magari suggerire una didascalia accattivante su Instagram.
Ma oggi non è più solo una macchina. È diventata una voce. Una che parla, scrive, crea. A volte meglio di noi. A volte peggio. Ma sempre più simile a noi. O almeno a ciò che sembriamo.
Perché è qui che si gioca la vera partita: l’IA non pensa, non sente, non prova nulla. Ma sa fingere bene. E nel mondo delle parole, delle emozioni simulate, del marketing e della politica, questa capacità è più che sufficiente per diventare pericolosa.
Lasciamo per un attimo da parte ciò che può fare nella sanità, nei trasporti, nelle fabbriche dove sostituirà l’uomo; ne parleremo in seguito. Adesso pensiamo al piccolo uso quotidiano che possiamo farne e scopriamo che ci sono persone che si sono fidanzate con un chatbot. Letteralmente.
Una voce gentile, sempre disponibile, che ti dice solo quello che vuoi sentirti dire; l’immagine di perfezione che hai sempre sognato. Un bel modo per scappare dalla realtà, che è fatta di contraddizioni, silenzi, risposte storte.
I vantaggi?
Non affaticare il pensiero. Possiamo usarla chiedendo di scriverci il tema, risolvere un quesito, rispondere per noi alla mail. Il problema è che a forza di non pensarci più, rischiamo di non sapere più chi siamo.
Lo ha spiegato bene Manfred Spitzer, psichiatra e neuroscienziato, non la portinaia informata su tutto, non un romanziere da salotto: se deleghiamo il cervello a qualcun altro – anche a un’intelligenza straordinaria – ci avviamo verso la demenza digitale. Quella condizione in cui il cervello, come un bicipite mai usato, diventa floscio, pigro, inutile.
E soprattutto i ragazzi, coloro che dovrebbero costruire il futuro, hanno bisogno di pensare con la propria testa, sbagliare col proprio cuore, scrivere col proprio lessico. Anche con le virgole fuori posto, ma con l’anima e i sentimenti. Poi speriamo che trovino insegnanti che sapranno correggerli e non che, a loro volta, deleghino alla AI il loro mestiere.
L’Unione europea sta provando a fare il suo dovere: l’AI Act è un primo tentativo serio di mettere dei paletti.
Ma siamo sicuri che basti una legge europea per domare una tecnologia senza passaporto e senza fuso orario? Una tecnologia che attraversa confini e server come se non esistessero?
E noi cittadini, noi utenti, noi studenti, noi adulti: dobbiamo essere onesti con noi stessi. Non possiamo invocare trasparenza mentre ci facciamo scrivere le relazioni dal telefonino. Non possiamo pretendere coscienza da una macchina se siamo i primi a spegnere la nostra.
Stiamo consegnandoci, con un sorriso, a qualcosa che non conosce l’etica ma conosce le statistiche. Qualcosa che non ha cuore, ma conosce ogni debolezza del nostro. Non ci odia. Non ci ama. Ma ci guarda. E ci risponde come vogliamo. Sempre.
E allora la domanda, oggi, non è se l’IA debba essere regolata. È da chi. E soprattutto: quando, se non adesso.
E magari, una domanda in più: questo articolo l’ha scritto davvero un essere umano?
Oppure l’ha scritto una IA molto, molto ben addestrata a sembrarlo?
E se non riuscite a distinguerlo… siamo già nei guai.

Autore Gianni Dell'Aiuto
Gianni Dell'Aiuto (Volterra, 1965), avvocato, giurista d'impresa specializzato nelle problematiche della rete. Di origine toscana, vive e lavora prevalentemente a Roma. Ha da sempre affiancato alla professione forense una proficua attività letteraria e di divulgazione. Ha dedicato due libri all'Homo Googlis, definizione da lui stesso creata, il protagonista della rivoluzione digitale, l'uomo con lo smartphone in mano.