Home Territorio Industria calzaturiera italiana 2021: crescono export e fatturato

Industria calzaturiera italiana 2021: crescono export e fatturato

463
Siro Badon


Download PDF

Badon: ‘La ripresa è a macchia di leopardo e insufficiente a ripianare le perdite aziendali’

Riceviamo e pubblichiamo.

Il comparto calzaturiero italiano in ripresa nel 2021. L’anno scorso infatti ha registrato un incremento del fatturato del +18,7% sul 2020 attestandosi a 12,7 miliardi di euro. Un valore però ancora inferiore all’epoca pre-Covid, -11% rispetto al 2019.

È la fotografia scattata dal Centro Studi di Confindustria Moda per Assocalzaturifici su un settore dove le griffe trainano l’export, con le aziende che viaggiano a velocità differente, solo una su tre ha recuperato i livelli ante pandemia, e su cui c’è l’ombra gettata dallo scenario geopolitico in continua evoluzione in Ucraina.

I dati sono stati illustrati oggi, 1° marzo, a Milano, nella conferenza stampa di presentazione della manifestazione internazionale Micam in programma dal 13 al 15 marzo 2022 a Fiera Miano Rho.

Spiega il Presidente di Assocalzaturifici, Siro Badon:

L’accelerazione dell’export nel quarto trimestre ha permesso al calzaturiero di archiviare il 2021 mantenendo gli incrementi a doppia cifra che avevano caratterizzato la prima metà dell’anno.

Dopo il crollo del 2020, anno in cui è stato duramente penalizzato dal lockdown e dalle restrizioni durante le due ondate pandemiche, il settore è ripartito, con un fisiologico rimbalzo nel secondo trimestre cui è seguito un recupero con intensità più contenuta.

Tutte le principali variabili mostrano incrementi non trascurabili in valore, compresi tra il +15 e il +20%, spesa delle famiglie italiane +15,6%, produzione ed export attorno al +17%; fatturato +18,7%.

Ma la ripresa è a macchia di leopardo e spesso ancora insufficiente nel ritmo, tanto che gran parte delle imprese non ha ancora raggiunto i ricavi 2019 antecedenti l’emergenza sanitaria.

Se i grandi gruppi internazionali del lusso hanno ripreso a correre, trainando le vendite estere settoriali, tra le aziende piccole e medie molte non ce l’hanno fatta a superare lo shock della crisi, i dati camerali relativi alla demografia delle imprese segnano un saldo negativo di -171 unità, pari al -4,1%, e numerose sono quelle tuttora in difficoltà, come mostra il ricorso agli ammortizzatori sociali rimasto su livelli eccezionali, benché in calo rispetto al 2020.

Inoltre, pesa l’incognita dell’operazione militare della Russia in Ucraina con rischi per l’impatto commerciale sull’interscambio delle nostre aziende con questi Paesi, che sono tra i prioritari, con una clientela che risponde ad una domanda di beni di lusso e di fascia alta.

Due mercati verso cui l’Italia ha esportato complessivamente nel corso del 2021 calzature per circa 317 milioni di euro e che stavano lentamente riavvicinandosi, con un +9,3% complessivo sul 2020, ai livelli pre-Covid, nel 2019 l’export verso i due paesi valeva 346,4 milioni di euro.

Nel dettaglio, l’export ha raggiunto in valore, 10,3 miliardi di euro a consuntivo, il secondo miglior risultato di sempre, anche al netto dell’inflazione.

Bene, in particolare, le prime due destinazioni, ovvero Svizzera, +16,2% in valore sul 2020, nei primi 11 mesi, e Francia, +24%, tradizionalmente legate al terzismo; ma anche USA, +42%, e Cina, +37,5%, che ha già abbondantemente superato i livelli 2019.

Tra i primi 20 mercati di sbocco, solo 3 hanno registrato nel 2021 un segno negativo: Regno Unito, Giappone e Corea del Sud, che ha così interrotto la forte e costante crescita degli anni precedenti.

Infine si guarda con preoccupazione alla crisi russo Ucraina che inevitabilmente frenerà la ripresa appena descritta data l’importanza strategica dei due mercati per la calzatura italiana.

Risale l’attivo del saldo commerciale, +22% da gennaio a novembre, atteso a poco meno di 5,2 miliardi nei 12 mesi.

Sul fronte interno, invece, gli acquisti delle famiglie, pur in crescita del +15,6% in valore, con un +12,1% in volume, restano ancora al di sotto dell’11,1% rispetto alla situazione già largamente insoddisfacente di due anni addietro.

L’analisi per merceologia evidenzia incrementi attorno al +16% in spesa sul 2020 per le calzature classiche per uomo e del +18% per quelle per donna; entrambe le voci, duramente colpite nel 2020 dal venir meno di molte occasioni d’uso, restano però al di sotto di circa il -20% rispetto al pre-crisi; +14% per le scarpe da bambino; +16,3% per le sportive e le sneakers, con un gap del -4% sul 2019.

Aumento contenuto, infine, per la pantofoleria, +6%, ma sufficiente ad appianare il divario con la situazione pre-Covid, +0,3%, visto il diffuso utilizzo durante la permanenza forzata nelle case nel 2020 e quindi la minor flessione negli acquisti subìta.

Permane, inoltre, in forte sofferenza lo shopping legato al turismo straniero, sempre molto penalizzato.

Dal punto di vista occupazionale, nel 2021 si contano in Italia 3.981 calzaturifici attivi, con un saldo negativo di -171 unità rispetto a dicembre 2020. La forza lavoro settoriale è scesa a 70.586 addetti, -1.296 sul 2020, -1,8%.

Considerando anche i produttori di componentistica, i saldi precedenti salgono a -312 aziende e -2.067 addetti rispetto al 2020, tra industria e artigianato. Il numero di imprese attive cala in tutte le regioni. Con riferimento agli addetti, Campania e Puglia risultano le uniche in controtendenza, +95 e +148 unità.

Nelle Marche e in Toscana le riduzioni più elevate in termini assoluti sia nelle imprese attive, -114 e -65 unità rispettivamente, che nel numero di addetti, -1.269 e -624.

Infine, dopo il picco del 2020 raggiunto a seguito dell’interruzione delle attività lavorative durante il lockdown, 83 milioni di ore, nel 2021 le autorizzazioni rilasciate da INPS per la filiera pelle sono scese a 68,2 milioni, -17,8%, restando però su livelli più di 8 volte superiori a quelli del 2019, +722%, a testimonianza di uno scenario ancora decisamente complesso in cui l’aumento dei prezzi delle materie prime, che ha caratterizzato tutto il 2021, e quello dei costi energetici erodono i margini delle imprese, mettendo a rischio la ripartenza stessa del settore.

Print Friendly, PDF & Email