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In ginocchio da te

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Black Lives Matter


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Lo scrivo subito, senza colpo ferire, i pochi che mi leggono mi comprenderanno se lo affermo in pompa magna, sfruttando lo spazio che mi viene gentilmente offerto dagli amici di ExPartibus: io non mi inginocchio.

Non è smisurato orgoglio di se stessi, né fierezza corrotta ad arte dal mio spirito bastian contrario, sempre refrattario alle pubbliche sommosse generate dagli standard moralistici dettati dai guru del pensiero omologante.

Io non mi inginocchio perché mi sento libero di decidere cosa sia giusto e cosa non lo sia, non mi inginocchio perché non credo a queste azioni simboleggianti vicinanza e buon esempio dell’ultima ora, perché sfuggo a chi lo decide di fare e chi non lo esegue è infido e da mandare davanti ad un plotone di esecuzione, perché stigmatizzo i comportamenti di perbenismo di massa, perché mi fa orrore chi segue il decisionista di turno ma nell’intimo suo non crede a nulla di quello che ha detto e a niente di quello che ha fatto.

Non mi inginocchio perché sono un uomo che pensa o che si illude di farlo con i neuroni che il buon Dio mi ha messo a disposizione. Eppure, credetemi sono un buon diavolo. Non rubo, non ho ucciso, non ho fatto atti che possano aver offeso la morale e il cuore altrui.

Eppure, se non accetto questo “inginocchiarsi” come atto di deferenza e di scusa verso chi ha sofferto forme assurde di razzismo, chi è stato vittima indifesa di un’efferata criminalità del pensiero aggressivo e xenofobo.

Il Black Lives Matter, che letteralmente sta per “Le vite dei neri sono importanti”, è un movimento attivista internazionale, nato all’interno della comunità afroamericana, impegnato nella lotta contro il razzismo, commesso a livello sociopolitico verso le persone afroamericane.

Chi ne fa parte organizza regolarmente delle manifestazioni per protestare in maniera decisa contro gli omicidi degli afroamericani da parte della polizia, nonché contro questioni più significative come la profilazione razziale, la brutalità delle forze dell’ordine e la disuguaglianza razziale nel sistema giuridico degli Stati Uniti.

All’interno di questo meccanismo c’è la volontà di creazione di una rete internazionale a loro sostegno, rispetto e sostegno delle differenze e delle comunanze, l’avversione a sessismo, misoginia e ad ambienti in cui la figura dell’uomo sia centrale e la promozione della lotta contro il “privilegio cisgender”, a supporto degli individui afroamericani transessuali, in special modo le donne.

Contro queste persone io non provo nulla di scriteriato: non ho avversione, non provo disagio, non li offenderei né tantomeno provo rabbia eccitata da quel senso di delirio estremista che nascondiamo tutti – sì tutti – nel profondo della nostra anima nera.

Semplicemente trovo irriguardoso che il bisogno di alcuni, maggioranza o minoranza che sia, debba confondersi con il pubblico consenso. Questo è fanatismo.

Io non credo che inginocchiandomi si diventi un uomo migliore, non penso minimamente che non seguendo il rito mi scosti dal sacro altare della ragion comune e mi trasformi in un accesso esaltato razzista. Credo che per aiutare chi ha reali urgenze e chi soffre per colpe non proprie, ma per attacchi di violenza fisica e verbale, si debba fare altro: partendo dal Diritto.

Difenderli significa proteggerli nel far rispettare la legge con le sue sanzioni verso chi compie atti illegali e, per l’appunto, di violenza. Significa non compatirli come se appartenessero ad un mondo diverso dal nostro che necessita ogni giorno una preghiera di commiserazione, significa evitare che la Politica ne approfitti per coltivare in seno approssimative logiche di appropriazione di questo o quel pensiero, cavalcando la tigre del momento, provando a gestire, con senno e flessibilità, ogni nuovo furore di immoralità che persevera nelle piaghe di una società oramai bruciata e che continua ad ardere di cinismo, egoismo e repressa accettazione della volontà verticistica.

Si dovrebbe cominciare ad educare il mondo alla civiltà: intesa come rispetto all’etica della società e della politica e non a quella dei risultati. Servono nuovi parametri di riferimento, innovativi ma legati a principi di tradizione che sono nati nel nostro Occidente prima di tutto. Se siamo oggi quello che vediamo e viviamo è perché, soprattutto, ci siamo dimenticati chi siamo stati un tempo.

Appartengo alla minoranza silenziosa. Sono di quei pochi che non hanno più nulla da dire e aspettano. Che cosa? Che tutto si chiarisca? È improbabile. L’età mi ha ha portato la certezza che niente si può chiarire: in questo paese che amo non esiste semplicemente la verità. Paesi molto più piccoli e importanti del nostro hanno una loro unica verità, noi ne abbiamo infinite versioni.

Le cause? Lascio agli storici, ai sociologi, agli psicanalisti, alle tavole rotonde il compito di indicarci le cause, io ne subisco gli effetti. E con me pochi altri, perché quasi tutti hanno una soluzione da proporci: la loro verità, cioè qualcosa che non contrasti i loro interessi. Alla tavola rotonda bisognerebbe invitare anche uno storico dell’arte per fargli dire quale influenza può avere avuto il barocco nella nostra psicologia. In Italia infatti la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Viviamo in una rete di arabeschi.
Ennio Flaiano – Corriere della Sera, 3 settembre 1972

Poi, dando uno sguardo al nostro Paese, non possiamo non vergognarci del modo con il quale convogliamo il mal di pancia che ci proviene dall’estero. In effetti è difficile non percepire come la nostra Italia soffra di un’autostima decisamente molto bassa, come un complesso di inferiorità a dir poco ingombrante. Basta un articolo straniero o un applauso ad un Governatore in un Parlamento straniero per diventare l’argomento del momento.

Siamo lo specchio dei nostri fantasmi, degli errori che ci trasciniamo da secoli, sedimentati nella nostra anima collettiva così fortemente da renderci il popolino sempliciotto da prendere in giro, dimenticandoci il passato da cui proveniamo e che ci dovrebbe solo donare onore e gloria. Non è nostalgia, è la nostra Storia.

Invece, ecco che nel mentre di un periodo difficilissimo, nel perdurare di una pandemia che non ha ancora concluso il suo lavoro, la nostra gente si azzuffa per un paio di ginocchia da piegare sotto il peso dei benpensanti e della moda del momento.

Sarebbe più onesto discutere su come evolvere al meglio la nostra spina dorsale civile, modificandone i tratti, spingendo su un confronto che tenga vivo il dibattito sociale e lasci esprimere, con libertà e rispetto, il pensiero di ciascuno.

Anche perché il bilancio negli USA di questa stagione di gloria di BLM è molto più controverso di quanto si creda. Noi dovremmo imparare a diffidare della tendenza a trasformare le celebrità milionarie dello sport o dello spettacolo – o di… boh – in nuove guide morali o politiche.

Il BLM è stato abbracciato completamente dall’establishment ma si è macchiato di colpe serie: ha legittimato manifestazioni molto violente, con saccheggio, devastazioni e impoverimento nei quartieri abitati da afroamericani.

Questo non ci è spesso raccontato con la stessa enfasi con la quale qualche innocuo milionario calciatore con la maglia azzurra è stato accusato di restare in piedi mentre gli altri si inginocchiavano sotto il peso di colpe oscure ma imputate a tutti noi senza alcuna legittima comprensibilità.

Il razzismo va combattuto alzando lo sguardo e ficcandolo dritto dentro agli occhi della bestia che ci è di fronte e che, sospinto da questo modello di facinoroso appiattimento del pensiero, riesce a sopravvivere e a vincere le nostre paure, schiacciandoci sotto il peso di responsabilità che non ci meriteremmo e che dovremmo combattere andando oltre quello che vediamo.

Per questo a ‘In ginocchio da te’ io continuo a preferire ‘Nel Blu dipinto di blu (Volare)’, fate voi.

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.