C’è un gesto che oggi si ripete migliaia di volte, ogni giorno, in ogni parte del mondo. Una mano che scatta una foto, un dito che la carica su un social e, in pochi istanti, l’immagine di un bambino diventa pubblica.
È il primo bagnetto, la prima smorfia, il piedino avvolto nella copertina azzurra o rosa. A volte nemmeno quello. A volte è ancora prima, quando il bambino non è ancora nato e già si pubblicano le ecografie, il test di gravidanza, la sala parto in tempo reale.
Un tempo l’arrivo di un figlio si annunciava con una telefonata, oggi con una storia su Instagram, completa di musichetta e cuoricini animati.
Non si tratta solo di abitudini nuove. Si tratta di un salto culturale, profondo.
Stiamo dando al mondo intero, senza pensarci troppo, le prime tracce digitali di qualcuno che non sa di esistere, che non ha scelto di essere presente, che non ha modo di opporsi.
Un neonato diventa subito un’identità digitale, spesso senza che i genitori si rendano conto di ciò che stanno facendo. Nome, data di nascita, volto, contesto familiare, luogo di nascita, orari, abitudini, fratelli, nonni, amici, insegnanti. Un’intera scheda anagrafica distribuita gratis alla rete.
E tutto questo accade con le migliori intenzioni, naturalmente. Per amore. Per orgoglio. Per voglia di condividere.
Nessuno lo fa per esporre un minore. Ma lo si fa. E in modo irreversibile. Perché tutto ciò che viene caricato in rete non è più nostro, non è più sotto il nostro controllo, non può essere davvero cancellato.
Non è solo una foto: è un pezzo della loro identità.
Poi si cresce. E si continua.
La prima parola, la prima caduta buffa, la recita, la gita scolastica, la pagella. E sempre con il cellulare in mano. Ogni evento è documentato, commentato, condiviso. Il figlio diventa contenuto. Una proiezione del nostro affetto, certo, ma anche della nostra immagine pubblica.
Perché, diciamolo, spesso condividiamo per noi. Per dire “io sono un bravo genitore”, “guardate com’è bello”, “ammazzatevi d’invidia”. I like non sono applausi a loro. Sono carezze a noi stessi.
E intanto i bambini crescono. E trovano già una traccia digitale pronta, una cronologia non richiesta, un archivio di sé costruito da altri.
Quando saranno adolescenti, magari si chiederanno perché. Perché la loro immagine era ovunque prima ancora di sapere cosa volesse dire avere un volto. Perché le loro emozioni più intime sono state rese pubbliche con leggerezza. E magari, senza rabbia ma con lucidità, ci chiederanno conto.
Certo, si può obiettare che non tutti i genitori lo fanno. Che basta stare attenti. Che esistono i filtri, le impostazioni di privacy, i profili chiusi.
Ma anche in questi casi, resta un fatto semplice: il bambino non ha scelto. E quando si tratta di diritti, soprattutto dei più piccoli, la scelta dovrebbe venire prima della comodità. Prima del bisogno di condivisione. Prima della nostra fretta di raccontare tutto.
Non servono proibizioni, né crociate. Ma serve consapevolezza. Sapere che ogni volta che pubblichiamo qualcosa di nostro figlio, stiamo costruendo una storia che non ci appartiene del tutto. Che stiamo decidendo per lui. E che, a differenza delle storie di carta, questa non si strappa, non si mette in una scatola dei ricordi, non si chiude in un cassetto.
Forse non serve nemmeno aspettare una legge per regolamentare tutto questo. Basterebbe quel buon senso antico che ci insegnava a tenere alcune cose in famiglia. Non per nasconderle, ma perché erano così importanti da non volerle mettere in vetrina. Come certe emozioni che non hanno bisogno di spettatori. Come certi momenti che si vivono, non si postano.
I figli hanno diritto a una cosa semplice e profonda: crescere liberi di costruire la propria identità. Senza che sia già stata decisa da un album digitale aperto al pubblico.
E se davvero vogliamo proteggerli, forse il primo gesto non è comprare l’ultimo antivirus o attivare il parental control.
È pensare due volte prima di cliccare “condividi”. Anche quando ci sembra un gesto d’amore. Anzi, proprio allora.
Autore Gianni Dell'Aiuto
Gianni Dell'Aiuto (Volterra, 1965), avvocato, giurista d'impresa specializzato nelle problematiche della rete. Di origine toscana, vive e lavora prevalentemente a Roma. Ha da sempre affiancato alla professione forense una proficua attività letteraria e di divulgazione. Ha dedicato due libri all'Homo Googlis, definizione da lui stesso creata, il protagonista della rivoluzione digitale, l'uomo con lo smartphone in mano.













