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Il filo invisibile – Prima parte

Il filo invisibile

La cultura è un salvagente dell’individuo contro la massa che è in lui.
Elias Canetti

La cultura è una forza invisibile, eppure onnipresente, che plasma ogni gesto, ogni scelta, ogni pensiero di chi vive immerso in essa.

Non è solo l’arte alta, la letteratura o la musica che studiamo nei libri di scuola; è il modo in cui salutiamo un vicino, il profumo del pane che scegliamo al mattino, la postura che assumiamo quando parliamo con un collega, il colore della sciarpa che indossiamo in una giornata di vento.

È il ritmo della vita stessa, un ritmo che cambia da un luogo all’altro, da un’epoca all’altra, ma che sempre ci avvolge, ci guida, a volte ci limita.

Pensiamo alla quotidianità: un italiano che sorseggia un espresso al bancone di un bar, scambiando due battute col barista, sta vivendo un rituale culturale tanto quanto un giapponese che si inchina leggermente entrando in una stanza.

Questi gesti non sono casuali, non sono solo abitudini personali; sono il prodotto di secoli di storia, di valori condivisi, di modi di vedere il mondo.

La cultura è come un linguaggio che parliamo senza accorgercene, ma che dà forma a ogni nostra frase. Prendiamo la routine mattutina, qualcosa di apparentemente banale.

In una città come Roma, la mattina potrebbe iniziare con il suono di un clacson, il profumo di cornetti appena sfornati, una corsa per prendere l’autobus.

A Tokyo, invece, la stessa mattina potrebbe essere scandita dal silenzio ordinato di un treno puntuale, da un bento preparato con cura, da un saluto formale ai colleghi.

Questi dettagli non sono solo differenze pratiche; riflettono visioni del mondo.

In Italia, la spontaneità, il calore umano, il caos creativo sono valori culturali che si riversano nella vita di tutti i giorni. In Giappone, l’ordine, il rispetto per la collettività, l’attenzione al dettaglio plasmano ogni momento.

E se guardiamo indietro nella storia, troviamo le radici di queste differenze: l’Italia del Rinascimento, con la sua esaltazione dell’individuo e della bellezza, ha lasciato un’impronta che ancora oggi si vede nel gusto per il gesto espressivo, per la convivialità.

Il Giappone, con la sua tradizione shintoista e buddhista, ha coltivato un’estetica della semplicità e dell’armonia che permea anche il modo in cui si piega un tovagliolo o si dispone una ciotola sul tavolo.

Ma la cultura non è solo un’eredità passiva; è anche una forza che si evolve, si contamina, si ribella.

Pensiamo alla moda, che è forse uno degli specchi più immediati della cultura. La moda non è solo vestiti: è un linguaggio, un modo di dire chi siamo, o chi vogliamo essere.

Negli anni 60, i giovani italiani che indossavano jeans e magliette stavano rompendo con la formalità delle generazioni precedenti, stavano gridando un desiderio di libertà, influenzati dalla cultura americana che arrivava attraverso il cinema e la musica.

Oggi, un ragazzo di Milano potrebbe indossare una felpa oversize, sneakers di marca e un cappellino girato al contrario, non solo per comodità, ma perché quel look è un biglietto d’ingresso in una cultura globale, quella dello streetwear, che mescola hip-hop, skate, arte urbana.

Eppure, nello stesso momento, una donna in Sardegna potrebbe scegliere un abito tradizionale per una festa di paese, con ricami che raccontano storie di famiglia, di terra, di resistenza.

La moda è questo: un dialogo tra il globale e il locale, tra il presente e il passato. E ogni scelta di stile è culturale, perché risponde a un contesto, a un’identità, a un’idea di bellezza, concetto che ci porta a un accenno filosofico.

Platone pensava che la bellezza fosse un riflesso dell’ideale, qualcosa di eterno che trascende il mondo materiale. Ma la cultura ci insegna che la bellezza è tutt’altro che universale.

In alcune società africane, le cicatrici decorative sul corpo sono un simbolo di prestigio e forza; in Corea del Sud, una pelle chiara e liscia è un’ossessione culturale, radicata in secoli di valori confuciani che associavano la purezza esteriore a quella interiore.

La moda, allora, diventa un’arena dove queste idee di bellezza si scontrano e si fondono. Pensiamo al fenomeno del K-pop, che ha esportato non solo musica, ma un intero modello estetico: capelli colorati, trucco impeccabile anche per gli uomini, outfit che mescolano audacia e perfezione.

Questo stile non è solo moda; è cultura che viaggia, che influenza giovani in tutto il mondo, che cambia il modo in cui si guardano allo specchio.

E il lavoro? Anche qui la cultura lascia il suo segno.

In Germania, la puntualità e l’efficienza sono quasi un culto, un’eredità della disciplina prussiana e del rigore protestante descritto da Max Weber nella sua ‘Etica protestante e lo spirito del capitalismo’.

In Italia, invece, il lavoro può essere più fluido, più legato alla relazione personale, al piacere di una pausa caffè con i colleghi.

Non è un caso che in Italia il concetto di ‘bella figura’ sia così centrale: presentarsi bene, parlare con garbo, curare i dettagli è una forma di rispetto, non solo verso gli altri, ma verso l’idea stessa di comunità.

Questo non significa che un paese sia più ‘avanzato’ dell’altro; significa che la cultura dà priorità diverse, modella il modo in cui misuriamo il successo, il tempo, persino la felicità.

Negli Stati Uniti, il mito del self-made man spinge a vedere il lavoro come una corsa individuale verso il successo; in molte culture asiatiche, il successo è più collettivo, legato al contributo che si dà alla famiglia o alla società.

Le abitudini, poi, sono forse il campo dove la cultura si manifesta con più evidenza. Mangiare, dormire, socializzare: tutto è culturale.

In Spagna, la cena alle dieci di sera è normale, un riflesso di un ritmo di vita che privilegia il calore delle serate, la condivisione. In Inghilterra, il tè delle cinque è più di una bevanda: è un momento di pausa, un rito che resiste anche in un mondo frenetico.

E queste abitudini non sono solo pratiche; sono cariche di significato.

Pensiamo al cibo: in Italia, un piatto di pasta non è solo cibo, è storia, è famiglia, è il ricordo di una nonna che impastava a mano. In India, un curry può essere un’esplosione di spezie, ma anche un simbolo di equilibrio, influenzato dall’ayurveda e dalla filosofia che vede il corpo come un microcosmo.

Anche il modo in cui ci sediamo a tavola è culturale: in Giappone, ci si siede a terra, in silenzio, con gesti misurati; in Messico, un pasto è un’esplosione di colori, risate, chiacchiere.

Ma la cultura non è solo tradizione; è anche conflitto, trasformazione.
Torniamo alla storia: ogni grande cambiamento culturale è nato da una tensione.

La Rivoluzione Francese non ha solo abbattuto monarchie; ha cambiato il modo in cui le persone comuni si vestivano, parlavano, si vedevano. I cittadini della nuova repubblica rifiutavano le parrucche incipriate dell’aristocrazia, sceglievano abiti semplici, quasi a dire: “Siamo uguali”.

Allo stesso modo, il movimento femminista degli anni 70 non ha solo combattuto per i diritti; ha liberato le donne dai corsetti, letteralmente e metaforicamente, dando loro il permesso di indossare pantaloni, di lavorare in campi prima riservati agli uomini, di ridefinire la propria quotidianità.

La cultura, quindi, è anche una lotta per il potere: il potere di definire chi siamo, cosa è normale, cosa è bello.

E qui entra in gioco un altro spunto filosofico: Michel Foucault parlava del potere come di qualcosa che non si possiede, ma che si esercita, che circola nelle pratiche quotidiane.

La cultura è uno di questi campi di esercizio del potere. Chi decide cosa è “di moda”? Chi stabilisce che un certo comportamento è “appropriato”?

Pensiamo al mondo del lavoro: in molte culture, mostrare emozioni in ufficio è visto come poco professionale. Ma chi ha deciso che la razionalità deve prevalere sul sentimento?

Questa norma è culturale, non universale, e riflette valori che privilegiano il controllo, la produttività, spesso a scapito dell’autenticità. Eppure, ci sono culture, come quelle latinoamericane, dove l’espressività è non solo accettata, ma celebrata, anche sul lavoro.

La globalizzazione ha complicato tutto questo. Oggi, la cultura non è più confinata in un luogo. Un adolescente di Napoli può ascoltare trap coreana, indossare abiti ispirati a Los Angeles, mangiare sushi per cena. Questo mix è eccitante, ma anche disorientante.

Da un lato, la globalizzazione ci dà accesso a una ricchezza culturale immensa; dall’altro, rischia di appiattire le differenze, di creare un’unica cultura dominante, spesso guidata dai grandi marchi e dai media.

Eppure, la resistenza è viva. Pensiamo al revival delle lingue locali, come il gallese o il maori, o al ritorno della moda vintage, che recupera abiti e stili del passato come un atto di nostalgia, ma anche di identità.

La cultura globale non cancella quella locale; le due si intrecciano, si sfidano, si arricchiscono. Torniamo alla quotidianità, perché è lì che la cultura si vive davvero.

Immaginiamo una giornata tipo: ti svegli, scegli cosa indossare, magari una camicia bianca perché è “elegante” (ma chi ha deciso che il bianco è elegante?). Vai al lavoro, saluti i colleghi, magari con un cenno formale o con un abbraccio, a seconda di dove sei.

A pranzo, scegli un’insalata perché è “sana” (ma l’idea di salute è culturale: in alcune società, il cibo abbondante è sinonimo di benessere). La sera, guardi una serie su Netflix, magari americana, ma doppiata nella tua lingua, e ti ritrovi a ridere per battute che forse non avresti capito vent’anni fa.

Ogni momento di questa giornata è intriso di cultura: i vestiti, i saluti, il cibo, le risate. E ogni momento riflette una storia, un intreccio di valori, di lotte, di sogni.

Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.