Tutti capiscono che il cambiamento climatico sta avvenendo e le persone che si oppongono fanno davvero male ai nostri figli e ai nostri nipoti e rendono il mondo un posto molto peggiore.
Eric Schmidt
Gli uomini sono figli dell’Era glaciale: solo quando il freddo intenso dell’ultima glaciazione cominciò a stemperarsi, oltre diecimila anni fa, apparve la coltivazione e, con essa, l’urbanizzazione e l’inizio della storia. Può apparire paradossale, ma è stato il riscaldamento del clima a crearci.
Nel corso di tutta la storia umana, d’altra parte, il clima non è certo rimasto stabile e i suoi effetti sulle culture sono stati enormi. Non si può prescindere dalle condizioni climatiche nello studio delle civiltà, dei popoli, delle guerre, delle migrazioni, delle carestie, delle religioni e persino dell’arte e della letteratura.
Diventa sempre più chiaro che il clima della Terra è parte integrante e motore inconsapevole dello sviluppo storico, politico e culturale dell’uomo.
Oggi più che mai, la discussione intorno a tale argomento ha assunto una nuova dimensione legata, soprattutto, a quanto è avvenuto negli ultimi 40 anni, ovvero da quando la tematica è stato “ribattezzata” Global Warming, passando da prevalente argomento di interesse scientifico a dibattito politico – finanziario. Il che non è mai banale.
La costituzione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC, nel 1988, sotto l’egida dell’ONU, come organo indirizzato a fornire una chiara visione scientifica del potenziale impatto sociale ed economico del Cambiamento climatico antropico, ha sottratto definitivamente alla scienza il confronto e il dibattimento, spostandolo verso i media e il sistema di comunicazione, assumendo, quindi, un’esclusiva dimensione politico – finanziaria. E ci siamo divisi tra negazionisti e allarmisti, tra chi vede l’abisso e chi crede che si sopravvivrà a prescindere.
È evidente, però, che il pianeta è a rischio. Al di là di ogni credo e sottinteso schieramento.
Oggi, mentre l’emergenza climatica si manifesta in tutta la sua gravità, è esploso nelle imprese l’impegno per la sostenibilità. Recentemente sta però emergendo un crescente scetticismo verso la burocrazia nata in nome dell’ambiente e del sociale, nota nelle aziende con la sigla ESG, Environmental, Social e Governance.
La contrapposizione tra entusiasti e scettici è rischiosa, perché partorisce una nuova forma di negazionismo climatico che ammette il problema, ma vuole rimandare le soluzioni a quando costeranno meno, o ritiene ci debba pensare solamente lo Stato.
Gli errori contrapposti degli entusiasti e degli scettici sono alimentati da alcune pericolose ipocrisie. L’ipocrisia dei neo-negazionisti, che si dichiarano preoccupati ma, alla fine, propongono solo iniziative di facciata.
E l’ipocrisia dei nuovi «guru» della sostenibilità, che teorizzano un nuovo capitalismo «buono», che si rivela una mescolanza di alcune buone regole che i bravi imprenditori hanno sempre seguito, con la pretesa di mettere in secondo piano gli obiettivi di profitto dell’impresa.
Occorre, invece, un nuovo approccio: un triangolo della sostenibilità, che ha già realizzato progressi prima impensabili sul clima, e che richiede una nuova mentalità delle aziende per sfruttare le opportunità di innovazione offerte dal pianeta; insomma, un salto di qualità nelle politiche economiche degli Stati, e un atteggiamento più pragmatico da parte degli attivisti, oggi troppo spesso vittime di estremismi ideologici.
Alla base c’è il recupero dell’idea originaria di sostenibilità, che distingue le vere crisi, che se non affrontate sono destinate a esplodere, dagli altri mille problemi sociali e ambientali del mondo, dei quali le imprese non possono occuparsi.
Qualcuno si ostina a liquidare i cambiamenti climatici come fake news, ma la gran parte di noi è ben consapevole che se non modifichiamo radicalmente le nostre abitudini l’umanità andrà incontro al rischio dell’estinzione di massa. Lo sappiamo, eppure non riusciamo a crederci. E, di conseguenz,a non riusciamo ad agire.
Il problema è che l’emergenza ambientale non è una storia facile da raccontare e, soprattutto, non è una buona storia: non spaventa, non affascina, non coinvolge abbastanza da indurci a cambiare la nostra vita. Penso che ce ne siamo accorti un poco tutti.
Per questo rimaniamo indifferenti, o paralizzati: la stessa reazione che suscitò Jan Karsky, il «testimone inascoltato», quando cercò di svelare l’orrore dell’Olocausto e non fu creduto. Scusate il paragone.
In tempo di guerra, veniva chiesto ai cittadini di contribuire allo sforzo bellico: ma qual è il confine tra rinuncia e sacrificio, quando in gioco c’è la nostra sopravvivenza, o la sopravvivenza dei nostri figli?
Diciamolo, la crisi climatica che è anche crisi della nostra capacità di credere. Per combatterla dobbiamo essere capaci di rinunciare alla cultura consumistica, schiacciata sull’ipocrisia di un eterno presente, e anche alla costruzione dei muri che dividono i popoli ed alimentano le disuguaglianze. Dobbiamo lasciarci alle spalle l’illusione di poter dimenticare i danni che la nostra civiltà procura al pianeta.
Questa catastrofe globale non è solo un problema politico: ha a che fare con la nostra immaginazione e con il coraggio di affrontare la sfida di un cambiamento radicale nel nostro stile di vita. Per superare la crisi del clima, dobbiamo cambiare il sistema che l’ha prodotta. Il che è come salire scalzi su un monte ghiacciato.
Va detto, anche, che viviamo nell’epoca dell’eco-ansia. Politici, attivisti e media diffondono un messaggio comune: il cambiamento climatico sta distruggendo il pianeta e dobbiamo prendere subito provvedimenti drastici per fermarlo, altrimenti sarà la catastrofe.
In preda al panico, i leader mondiali si sono impegnati in politiche estremamente costose ma inefficaci, senza considerare le conseguenze indesiderate a livello economico e sociale, soprattutto per i Paesi più poveri.
Il dibattito sull’emergenza climatica, sempre più polarizzato tra catastrofismo e negazionismo dimostra in modo convincente che gran parte di ciò che pensiamo al riguardo è sbagliato: le previsioni allarmistiche sull’imminente fine della Terra travisano la scienza e conducono a politiche che non risolvono il problema, ma causano più danni che vantaggi, aumentando povertà̀ e disuguaglianze.
Allora, occorre valutare le politiche per il clima nello stesso modo in cui valutiamo ogni altra politica, in termini di costi e benefici. Del resto, mai come oggi l’atmosfera terrestre, gli oceani e i continenti sono stati tanto sorvegliati dal punto di vista meteorologico ed ambientale e ogni anno la comunità scientifica internazionale produce migliaia di ricerche che confermano la portata epocale dei danni inflitti dalle attività umane al sistema Terra.
Non conosciamo tutto di come funziona il clima terrestre, ma ormai, da anni, ne sappiamo abbastanza per comprendere la gravità della situazione, il rischio di collasso degli ecosistemi da cui dipendiamo e l’urgenza di intervenire con azioni efficaci.
A cosa servirebbero, infatti, secoli di avanzamento della conoscenza, se poi restassimo impreparati di fronte alla più grande sfida della storia umana, pur avendola prevista con decenni di anticipo?
È una domanda che si sovrappone alle forti e dolorose immagini che in questi giorni sono arrivate dalla Spagna: città allagate, distrutte e sconvolte, con centinaia di morti e di dispersi per un’alluvione che poteva essere fronteggiata diversamente.
Alla base c’è l’uomo che non sa rispettare la natura e non sa gestire la sua avida ambizione di costruire senza alcuna coerente considerazione di quello che l’ambiente pretende. La sua proverbiale forza divoratrice che abbraccia mortalmente la sua indigesta visione di arricchimento.
Tra fango e sole saranno altre città e altri popoli a ricercare la propria gente sotto macerie e sotto una coltre di poltiglia inamovibile. Non è una profezia, ma una semplice deduzione che riguarda tutti noi.
Il cambiamento climatico, il degrado ambientale, la sovrappopolazione e la guerra minacciano il futuro della nostra vita sulla Terra. Sono i Cavalieri dell’Apocalisse creati dall’uomo.
Jeannette Winterson
Autore Massimo Frenda
Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.