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Un viaggio nella psicologia tibetana

Furono i Monaci Tibetani, incontrati lungo il mio cammino, a farmi rendere conto di quanto fosse importante sapere analizzare la mia mente.

La tua mente è sana?

mi chiesero, e io supponevo di sì, ma volli approfondire, perciò chiesi loro cosa intendessero con quella domanda.

Noi pensiamo che se anche un solo lieve mutare delle condizioni esteriori, qualcosa di poco conto che non va come vorresti, in un attimo può farti perdere la pace e l’equilibrio interiore, la tua mente, come quella di tutti noi, non possa definirsi sana.

Capisco che un gravoso imprevisto come il Covid abbia la capacità di mandare in tilt un’intera popolazione mondiale, ma quanto siamo stati addestrati, per tutta la vita, a reagire serenamente di fronte ai banali e piccoli mutamenti?

Un soprammobile fuori posto, una pietanza venuta male, un treno in ritardo, un appuntamento andato in fumo, se piove non va bene, se fa caldo per carità, insomma, abbiamo sempre occasioni per lamentarci e questo, secondo le Filosofie Orientali, avviene perché non siamo stati educati ad analizzare in profondità la nostra mente.

Se hai un problema e lo puoi risolvere, perché ti lamenti?
E se non lo puoi risolvere, perché ti lamenti?

diceva Lao Tsu.

Se non conosco la natura della mia mente non potrò prevenire la lenta ma costante crescita dei disagi interiori.

Se pensiamo che sia normale lamentarsi così tanto di qualunque cosa, non riusciremo a riconoscere di avere una mente che, piano piano, nel tempo, ci condurrà a condizioni di malessere sempre più profondi e più difficili da curare.

Dai Monaci Tibetani imparai che studiare me stesso diventava la cosa più importante e più urgente, se volevo mantenere o migliorare il mio equilibrio interiore; anche perché, frequentemente, è proprio dallo stare bene dentro che dipende pure lo stare bene fuori, nel corpo fisico, giacché se è vero che possiamo ottenere una mente sana per mezzo di un corpo sano è altrettanto vero il contrario poiché le due cose, corpo e mente, non sono affatto separati.

In Occidente “analisi” deriva dal greco e significa “sciolgo” e la sua radice risiede nel campo filosofico, nell’ambito della logica e della matematica.

Nel tempo la psicologia adottò lo stesso termine proponendosi di rendere leggibili le manifestazioni psichiche per mezzo della loro riconduzione ai meccanismi elementari che si ipotizzano alla loro base.

Immaginiamo perciò una corda piena di nodi.
Per poterla sciogliere dobbiamo cominciare dal primo nodo e, piano piano, con pazienza, arrivare alla base, fino a liberarla completamente.

Freud riteneva che tale processo fosse più facile facendo sdraiare i pazienti su un divano, sfruttando l’effetto catartico dell’ipnosi, ma Jung abbandonò in fretta tale concetto poiché riteneva che l’interazione non avvenisse solo tra la coscienza del terapeuta e l’inconscio del paziente, bensì tra conscio e inconscio dell’analista e conscio e inconscio del paziente.

Io imparai ad analizzarmi incontrando monaci e guru all’aria aperta, sotto gli alberi, oppure nei templi indiani, oppure ancora meditando in gruppo o in solitudine.

Qualunque metodo va bene, pur di non abbandonare l’assioma che fu anche dell’antica Grecia:

Conosci te stesso!

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Autore natyan

natyan, presidente dell’Università Popolare Olistica di Monza denominata Studio Gayatri, un’associazione culturale no-profit operativa dal 1995. Appassionato di Filosofie Orientali, fin dal 1984, ha acquisito alla fonte, in India, in Thailandia e in Myanmar, con più di trenta viaggi, le sue conoscenze relative ai percorsi interiori teorici e pratici. Consulente Filosofico e Insegnante delle più svariate discipline meditative d’oriente, con adattamento alla cultura comunicativa occidentale.