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Dies Natalis Solis Invicti – II e ultima parte

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Dies Natalis Solis Invicti


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‘Mac na Lasa, Mac na leusa, Na cruinne Mac, Mac na ce, Heire Bannag’ ‘Figlio della fiamma, Figlio della luce, Figlio della sfera, Figlio del globo, Ehi il Dono.’
Carmina Gadelica vol. 1 Canto di Natale n.59 

Il corpus delle credenze viene ricondotto, ovviamente, ad una categoria magico-popolare ove l’uomo si beava anche dei prodigi della Natura.

L’individuo immerso nella ciclicità dell’eterno dualismo fra luce e buio, in una scansione temporale dove i rituali servivano ad ingraziarsi le divinità o, per l’appunto, la Natura provando a ridestarla dal suo torpore, assicurandosi prosperità e fecondità.

Questa festività proprio per le ragioni che sono state espresse sopra ha attraversato culture geograficamente lontane seppure raccolte in una ambigua similitudine.

Nel mondo nordico questo periodo viene chiamato Yule, dal dio pagano Jul a cui venivano dedicati banchetti e festeggiamenti. O anche, secondo alcuni linguisti, deriva dal norreno Hjól che vuol dire ruota e ciò con riferimento al fatto che nel solstizio il sole si trova nel punto più basso dell’orizzonte e che inizia a risalire.

Da questa festa il rimando all’utilizzo del vischio e dell’agrifoglio.

Il primo è simbolo del Figlio della Luce, portatore di fortuna prosperità e protezione. Anticamente i druidi raccoglievano il vischio per Deuoriuos durante la prima settimana di dicembre, all’incirca nel periodo in cui il Cristianesimo festeggia l’Immacolata Concezione, quindi ogni famiglia seccava un mazzetto di vischio e lo appendeva nelle case a scopo protettivo e beneaugurante.

Il secondo veniva piantato dai romani vicino alle proprie case perché attribuivano alla pianta virtù anti malefiche e usavano i rametti di agrifoglio durante i Saturnali. Nella tradizione neo-druidica Yule diviene Alban Arthan che fa riferimento alla rinascita della luce arturiana fino a giungere al Wren Day, ovvero il giorno dello Scricciolo che si celebrava il 26 dicembre in onore della morte del Re Agrifoglio, identificato con lo scricciolo, ucciso da suo figlio e successore il pettirosso Oak King.

In alcune zone dell’Irlanda, ad esempio, vi sono contadini che danno la caccia a questo animale e lo uccidono: è un evento che ha seppure arcaico ha la sua solennità. In questo modo cruento si riceve una parte del potere emanato dal dio morto.

Possiamo dire che la festività di Yule è legata alla celebrazione del sole e della madre terra che si allestisce, infiammata dai primi raggi, alla futura semina. Tra i diversi temi legati a Yule il principale è quello della battaglia tra il vecchio Re dell’Agrifoglio, simbolo di oscurità e di vecchiaia, e il giovane Re della Quercia che rappresenta la luce del nuovo anno. Il vecchio sovrano viene emblematicamente ucciso e il giovane re prende il suo posto sul trono per regnare. Con il rito del ceppo di Yule si genera ogni anno, oltre alla tradizione di stare intorno tutti al fuoco, anche questa antica e mai doma battaglia.

In tutte le epoche il Natale è stato considerato e osservato come tempo di nuovi inizi, di migliori contatti umani e più felici rapporti tra le famiglie e le comunità. Ciò nonostante, al di là di ogni folcloristico simbolismo, superando la litania consumistica che si abbatte ciclicamente, oltrepassando le caricature da presepe e gli addobbi made in China, non ci resta di appuntarci che di cristiano è rimasto solo il rito che si ripete, la ricorrenza che ricomincia, la festa che, come nessun’altra, è davvero “comandata” dall’approssimazione, dall’ansia e dall’economia dell’opulenza dove si fondano spreco e consumo. Un’abbondanza di individualismo che si cela dietro un ipocrita buonismo in un tripudio di finti doveri e disarcionati luoghi comuni.

Sarà, forse, un Natale diverso, un Natale “limitato” dove la trasgressione sarà uscire fuori casa e fuori dalle mura della propria città; o potrebbe essere la replica infelice dell’ultima estate in cui abbiamo abbassato la guardia e abbiamo favorito una nuova onda di paura e di contagio.

Resta che in questi giorni ci accorgiamo di vivere al margine del mondo e proviamo la vertigine di chi si trova per un giorno gettato, senza saperlo, lungo la via faticosa della ricerca di senso, della direzione della nostra esistenza, con l’angusta sensazione che il teatro del mondo ci preveda come semplici marionette, mosse da voleri che ci sovrastano e ci collocano, loro sì, una direzione ignota.

Il Natale cristiano non si è mai separato dalle mitologie primitive, dal vischioso e urgente bisogno di salvezza dove il futuro è una promessa incompiuta e la rivoluzione una utopia frangibile.

Natale è la festa dell’infanzia. Abbiamo il diritto di domandarci se ci saranno ancora per lungo tempo notti di Natale, con i loro angeli e pastori, per questo mondo feroce, così lontano dall’infanzia, così estraneo allo spirito d’infanzia.
Georges Bernanos

Ci figuriamo quando siamo dentro a questi giorni in un tempo immacolato dove ogni credenza è un aggancio al cielo, come se prendesse forma una vivace allegoria della pace e del perdono, come in una parodia del sacro ma facendo anche un inchino al profano.

Eppure, dovremmo smettere di guardare al Natale con l’innocenza del tacchino. Dovremmo abiurare la speranza di immedesimarci nel patriottico ed euforico sguardo del bambino. Dovremmo capire che non c’è peggiore inganno di quello di concedersi alla provvisorietà. Questa festa è universale ma ha smarrito, se mai ne ha avuto realmente uno, il suo senso originario. Quanto meno nelle nostre appannate esistenze.

La semplicità e l’innocenza non ci appartengono più, dovremmo essere disincantati e costringerci a inoculare in ciascuno di noi l’eccitazione del tormento e l’elemosina dell’onesta almeno quella intellettuale. Oggi la nostra cultura è retta solo ed autenticamente dalle regole di un mercato economico che sa trasformarsi e sa distinguere il privilegiato dal disadattato.

Vi è in giro una falsa coscienza che ci obbliga tutti a diventare le sagome di un cartonato targato Disney. Eppure, siamo abissalmente lontani da quello che percepiamo nell’intimo e che sogniamo di immaginare. E il modo con cui ogni anno celebriamo il Natale ne contraddistingue inconfondibilmente il disagio e la contraddizione.

Il Natale, dunque, ci rammenta che il vero e intrinseco significato dell’esistenza umana è quello di risvegliare la nostra anima mediante l’arte di vivere. Questo è un ineluttabile processo che si verifica attraverso prove e, spesso, sbagli, con la sofferenza, con l’illusione che conduce verso una insperata verità.

Non sono molti gli uomini che coscientemente collocano la propria vita verso le finalità più alte: alcuni si stanno preparando, altri stanno già operando per raggiungerle. Sono individui che si armonizzano sempre più con la propria anima e si separano da una realtà personale ed egoistica.

Che sia un Natale nei cuori al di là di ogni credo: rinascita e intensità.

Auguri.

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.