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Da grande voglio fare lo YouTuber

YouTuber

C’erano una volta bambini che volevano fare gli astronauti, le maestre, i veterinari. C’era anche Grisù, il draghetto che voleva fare il pompiere.

Oggi, invece, un bambino su tre sogna di diventare YouTuber. Non medico, non ingegnere, non giudice. YouTuber. O magari TikToker. O

peggio ancora, ma lo sussurrano piano

aprire il mio profilo su OnlyFans.

Checco Zalone, con l’ostinazione del profeta di provincia, continua a ricordarci che il vero obiettivo è “il posto fisso”. Ma quel posto è sempre più evanescente, come le cabine telefoniche di una volta.

E allora, ha davvero senso dirlo con tono sprezzante:

fare lo YouTuber non è un lavoro serio?

Chi siamo noi per dirlo?

Chi ha dato ai trentenni – figuriamoci agli ultra cinquanta – il diritto di giudicare i sogni dei diciassettenni di oggi? E anche ai dodicenni con il profilo creato da mamma e papà, che magari si illudono pure di controllarlo.

Tuttavia, qualcuno, magari over sessanta, probabilmente direbbe che no, non è un lavoro serio. Perché un lavoro serio è quello che ti regge in piedi anche quando non sei più di moda. È quello che ti dà pane, dignità e un futuro, non solo follower. Quello per cui ci vuole “un pezzo di carta”.

Ma il problema, se andiamo a scavare, non è il sogno: è la rincorsa al sogno. È che per ogni Ferragni ci sono diecimila anonimi che restano al palo. È che il pubblico invecchia, cambia gusti, e tu potresti scoprire un giorno che la piattaforma su cui hai costruito tutto… non esiste più.

Vuoi sapere un segreto?

Internet dimentica più in fretta di quanto sembri. E mentre insegui like e sponsorizzazioni, c’è già qualcuno, più giovane, più spregiudicato, più algoritmicamente favorito, che ti surclassa. Perché il web, a differenza della vita vera, non ti accompagna. Ti sostituisce.

E allora, forse, una domanda va posta: stiamo preparando i nostri figli al successo digitale, o alla disillusione reale?

Perché tra un reel e un balletto da postare, quello che spesso manca è la cultura della fatica. Quella cosa noiosa che non fa visualizzazioni, ma ti salva quando le visualizzazioni smettono di arrivare.

Nessuno glielo dice più che prima dei like viene lo studio, prima dell’audience viene la competenza, e che un contenuto virale può farti guadagnare un mese… ma un contenuto solido ti fa guadagnare una vita.

Quando un adolescente ti dice

da grande voglio fare lo YouTuber

raramente intende

voglio produrre contenuti, curare un canale, analizzare i dati, imparare regia, montaggio e storytelling.

No.

Intende: voglio essere famoso, riconosciuto, pagato per parlare della mia giornata. E magari anche idolatrato, perché il web ha confuso la popolarità con l’autorevolezza.
Ma il mondo non è uno smartphone.

È fatto di bollette, di sveglie alle sette, di clienti che non pagano e di curriculum da spedire.

Lo dico senza cinismo, da boomer mi accuserebbero stuoli di giovani, ma con quella durezza che i genitori, gli insegnanti e gli adulti in genere stanno perdendo per paura di sembrare fuori moda: non basta desiderare qualcosa perché diventi un mestiere.

E qui viene il punto più spinoso: in quanti ce la fanno davvero?

Qual è la percentuale reale di chi vive creando contenuti sui social rispetto a chi ci prova?

E quanti, nel farlo, mettono a rischio la propria reputazione, si espongono troppo, condividono troppo, si bruciano troppo presto?

Perché una volta bruciata, l’identità digitale non si spegne: resta lì. Su Google, nei backup, negli screenshot degli altri. Nei video che qualcuno ha salvato e tirerà fuori tra dieci anni quando il loro autore si è “accontentato” di fare il direttore di banca.

E i social, lo sappiamo, non perdonano. Ti adorano oggi e ti ignorano domani. Ti premiano se segui l’onda, ma non ti avvisano mai quando sta per finire. I trend passano. I pubblici mutano. I format si svuotano. E alla fine resta solo il rumore di fondo.

Hai presente MySpace? Ask.fm? Vine? Clubhouse?

No? Appunto.

E allora il problema non è che un figlio dica

voglio fare lo YouTuber.

Il problema è quando nessuno gli chiede:

e poi?

Cosa farai quando TikTok cambierà algoritmo?

Quando i brand smetteranno di offrirti collaborazioni?

Quando qualcuno più giovane, più spregiudicato, più sintetico ti prenderà il posto?

Senza un piano B, un piano C e una base solida, magari costruita con la scuola, con lo studio e con la frustrazione che educa, il rischio è che un sogno digitale si trasformi in una dipendenza emotiva. In una droga di conferme continue. In una depressione mascherata da filtro bellezza.

E allora non ridiamoci troppo su.

Dietro la frase

da grande voglio fare lo YouTuber

si nasconde una generazione che ha fame di identità, di voce, di visibilità.

E se non saranno gli adulti a spiegare la differenza tra visibilità e valore, lo farà il web. E il web, a differenza nostra, non ha cuore. Ha solo algoritmo

Autore Gianni Dell'Aiuto

Gianni Dell'Aiuto (Volterra, 1965), avvocato, giurista d'impresa specializzato nelle problematiche della rete. Di origine toscana, vive e lavora prevalentemente a Roma. Ha da sempre affiancato alla professione forense una proficua attività letteraria e di divulgazione. Ha dedicato due libri all'Homo Googlis, definizione da lui stesso creata, il protagonista della rivoluzione digitale, l'uomo con lo smartphone in mano.