Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti.
Luigi Pirandello
Oggi le maschere hanno significati diversi a seconda del contesto.
Da una parte, c’è l’aspetto ludico e tradizionale, come succede durante il Carnevale: le persone ne indossano di plastica, stoffa o altri materiali per giocare, trasformarsi, divertirsi.
È un rito antico, che affonda le radici in tradizioni come quelle veneziane o persino più indietro, nei culti pagani, dove la maschera serviva a liberarsi temporaneamente dalle convenzioni sociali, a “confondersi”, diciamo, tra la folla e sperimentare un’identità diversa.
Questo uso è ancora vivo: pensiamo ai costumi elaborati, ai bambini che si travestono, agli adulti che per una notte abbandonano la propria quotidianità.
Dall’altra parte, però, la maschera ha anche un significato più profondo e complesso nella società moderna. Non sempre è un oggetto fisico: spesso è una metafora per ciò che usiamo per nascondere chi siamo davvero.
In un mondo dominato dai social media, per esempio, molti costruiscono “maschere digitali”, mostrando solo una versione ritoccata di sé stessi. Oppure, in contesti più quotidiani, si mettono maschere per adattarsi, per proteggersi, per non rivelare fragilità.
È una scomoda nostra verità molto umana. È diverso, però, dal gioco del Carnevale: qui la maschera non è tanto per divertirsi, quanto per celare il “vero volto”. Quindi, possiamo pensare che oggi convivano entrambi gli aspetti.
Durante il Carnevale prevale la maschera come divertimento, come tradizione che ci ricorda la leggerezza e il caos creativo. Ma nella vita di tutti i giorni, essa è più subdola, psicologica, un modo per navigare una società che spesso chiede di conformarsi o di proteggersi. E con le maschere ci sono i costumi. Vorrei approfondire meglio questo tema.
Il simbolismo del costume, soprattutto in un contesto come il Carnevale, è un tema ricchissimo e multilayered, che intreccia storia, psicologia e cultura. Non è solo un insieme di abiti o accessori: è un linguaggio, un modo per comunicare qualcosa di profondo, spesso inconscio, su chi lo indossa e sulla società in cui si inserisce. Partiamo proprio dal Carnevale, visto che ne parlavamo.
Storicamente, il costume serviva a rovesciare i ruoli sociali: i poveri si vestivano da re, i servi da padroni, le donne da uomini e viceversa. Questo simbolismo di inversione rappresentava una liberazione temporanea dalle rigide gerarchie, un momento in cui il caos prendeva il posto dell’ordine.
Pensiamo alla figura dell’Arlecchino, con il suo abito a losanghe multicolori: non è solo un personaggio buffo, ma un simbolo di frammentazione, di un’identità multipla e sfuggente, quasi a dire che l’essere umano non è mai una cosa sola.
Il costume, poi, ha un potere trasformativo. Quando lo infili, non cambi solo aspetto, ma atteggiamento, gesti, a volte persino pensieri. È come se ti desse il permesso di essere qualcun altro. Simbolicamente, questo richiama l’idea di metamorfosi: il costume diventa una seconda pelle che ti permette di esplorare parti di te che magari reprimi nella vita quotidiana.
Un esempio? Chi sceglie un costume da diavolo o da creatura oscura potrebbe voler esprimere una ribellione interiore, mentre un costume da angelo o da figura regale potrebbe riflettere un desiderio di purezza o autorità.
C’è anche un aspetto collettivo. Durante il Carnevale, i costumi creano una sorta di uguaglianza mascherata: non importa chi sei davvero, ma chi sembri essere. È un simbolo di sospensione della realtà, dove l’apparenza prende il sopravvento e il giudizio sociale si ferma, almeno per un po’. Eppure, paradossalmente, il costume può anche rivelare: la scelta di cosa indossare dice molto di noi, dei nostri sogni, paure o ironie.
Se ti vesti da supereroe, forse vuoi sentirti potente; se scegli un costume grottesco, magari stai prendendo in giro qualcosa o qualcuno. Fuori dal Carnevale, il simbolismo del costume si ritrova in altri ambiti: il teatro, le uniformi, persino la moda. Si pensi a come un abito da cerimonia o un look stravagante possa trasformarci agli occhi degli altri e ai tuoi stessi. È sempre una questione di identità, di ciò che mostri e ciò che nascondi.
Certamente, il simbolismo del costume assume una dimensione ancora più profonda e misteriosa quando lo guardiamo attraverso una lente esoterica, andando oltre il Carnevale e toccando tradizioni mistiche, rituali e significati archetipici. Qui il costume non è solo un travestimento, ma un portale verso l’invisibile, uno strumento per connettersi al divino, al subconscio o a realtà superiori.
Nelle tradizioni esoteriche, ha spesso una funzione sacra e trasformativa. Pensiamo alle vesti cerimoniali usate nei riti iniziatici, come quelli della massoneria o degli antichi culti misterici, ad esempio, i Misteri Eleusini in Grecia.
Non erano semplici abiti: ogni colore, simbolo o materiale aveva un significato preciso. Il bianco, per esempio, poteva rappresentare la purezza o il passaggio ad un nuovo stato di coscienza; il nero, la morte simbolica prima della rinascita. Indossare queste vesti era un atto di metamorfosi spirituale: l’iniziato “moriva” al suo vecchio io e rinasceva in una nuova consapevolezza.
Il costume, in questo senso, diventa una soglia, un mezzo per trascendere il mondo materiale. Anche nelle tradizioni alchemiche il simbolismo del costume è potente. Gli alchimisti, lavorando alla “Grande Opera”, la trasmutazione del piombo in oro, simbolo della perfezione dell’anima, a volte si raffiguravano con mantelli o copricapi particolari, spesso decorati con simboli celesti o geometrici.
Questi abiti non erano casuali: riflettevano il loro stato interiore e il loro legame con i principi cosmici. Il costume era uno specchio dell’universo, un modo per armonizzarsi con le forze nascoste della natura. Un altro esempio viene dalle culture sciamaniche, dove il costume è fondamentale. Lo sciamano indossa pelli, piume, maschere o corna non per bellezza, ma per incarnare spiriti animali o divinità.
Ogni elemento del costume ha un significato: le piume possono simboleggiare il volo dell’anima o il contatto con i cieli, le ossa la connessione con la morte e l’aldilà. Qui il costume è un’armatura sacra, una seconda pelle che permette allo sciamano di viaggiare tra i mondi, visibile e invisibile. È un segno di potere, ma anche di servizio ci si mette al servizio di qualcosa di più grande.
Nella tradizione esoterica occidentale, come la Kabbalah o l’ermetismo, il costume può essere visto come una rappresentazione dell’uomo microcosmo. Ogni parte dell’abito potrebbe corrispondere a un aspetto dell’albero della vita o a un pianeta astrologico. Una veste dorata potrebbe evocare il Sole, immagine di illuminazione e volontà, mentre una cintura potrebbe rappresentare Saturno, il limite e la disciplina. Indossare un costume rituale diventa così un atto di allineamento con le energie cosmiche.
C’è poi un aspetto archetipico, che Jung avrebbe amato esplorare. Il costume, in senso esoterico, richiama le maschere degli dèi o degli spiriti che l’individuo ha sempre cercato di incarnare. Mi riferisco ai sacerdoti egizi che si vestivano da Anubi o Horus durante i riti: non era solo teatro, ma un modo per “diventare” la divinità, per farne fluire l’energia nel mondo terreno.
Il costume, in questo caso, è un simbolo di unione tra l’umano e il divino, tra il finito e l’infinito. Fuori dai riti, anche nella vita quotidiana il simbolismo esoterico del costume può emergere in modo sottile. Pensiamo alla scelta inconscia di certi colori o forme: qualcuno che veste sempre di nero potrebbe, senza saperlo, richiamare l’archetipo di Saturno o della Nigredo alchemica, la fase di purificazione.
Oppure, chi ama adornarsi di gioielli potrebbe cercare un contatto con l’oro interiore, l’essenza spirituale. In sintesi, dal punto di vista esoterico, il costume è molto più di un oggetto: è un mezzo di trasformazione, un simbolo vivente che collega il visibile all’invisibile, l’io individuale al tutto. Riflette il principio “come sopra, così sotto”, portando l’universo dentro di noi e noi nell’universo.
Le persone non cambiano. Cambiano solo le maschere che indossano.
Ama H. Vanniarachchy

Autore Massimo Frenda
Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.