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Clubhouse: escluso o esclusivo

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Clubhouse


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È veramente da mettere in dubbio che l’intelligenza umana possa creare un cifrario che poi l’ingegno non riesca a decifrare con l’applicazione necessaria.
Edgar Allan Poe

I social networking sono sempre più le nostre terapie in gruppo. Un modo eccentrico e influenzato di vivere una seconda vita trasversale o parallela che non deve confondere, non più direi, ma completare quella che si suggerisce essere reale.

Una volta, certi social servivano a trasgredire, alcuni vengono utilizzati ancora prettamente per scivolare volontariamente nel tradimento o nell’irresponsabilità, nel morboso o nel patetico, scegliete voi.

Oggi che vogliamo affermarci e dare a tutti in pasto più chi siamo che chi vorremmo essere e a chi ci ispiriamo, non ci occorre coprire con un nickname o creare secondi profili per accertare al mondo che esistiamo e gridare in faccia a chiunque che quel molle culo che si dimena in un infuocato balletto da cubista appesantita è il mio, o quel volto da Peter Pan ammollito che si presta ad un video casalingo, nel peggiore dei tape che si possano immaginare, mentre si fa la barba o fa rimbalzare una pallina per le scale è sempre il mio.

Non serve nascondersi, anzi sentiamo l’urgenza di illuminare la nostra fisicità e la nostra quotidianità davanti ad una platea di migliaia e migliaia di gente – se ci va male, se siamo sfigati e se non cerchiamo amicizie anche nel Kazakistan – che, a sua volta, ci vomita addosso i suoi video casalinghi, le sue immagini sullo scorrere inutile della sua vita, ci delizia di pensieri e massime spesso copia e incolla di citazioni cosiddette colte ma rivedute e corrette alla propria esigenza.

Un vortice, un terremoto e un mix micidiale di storie e memorie di cui volentieri si farebbe a meno ma che non possiamo perché è il prezzo da pagare per stare al centro di questo nuovo mondo. Perché di nuovo mondo si tratta, se non lo abbiamo ancora capito.

L’ultima frontiera delle app social è Clubhouse. Sembra il titolo di una nuova serie americana che Netflix ci propina ma è un networking con chat audio solo su invito lanciata nel 2020 dagli sviluppatori di software Alpha Exploration Co.

Nel dicembre 2020, era stata stimata quasi 100 milioni di dollari. A fine gennaio 2021, la valutazione aveva raggiunto il miliardo di dollari USA. Lanciata nell’aprile dello scorso anno, la furba strategia di marketing è stata scientificamente programmata dai fondatori Paul Davison e Rohan Seth.

A Clubhouse si può accedere solo dopo aver ricevuto gli inviti, inizialmente distribuiti col contagocce alle più note celebrità statunitensi: da personalità della televisione come Oprah Winfrey a venture capitalist miliardari come Marc Andreessen; poi attori e popstar che, a loro volta, hanno cominciato ad invitare gli amici, dando così vita a un circolo elitario.

Insomma, entrare in Clubhouse significava, soprattutto all’inizio, far parte di un club esclusivo. E si sa più una cosa è esclusiva più ne restiamo affascinati e pretendiamo una corrispondenza di amorosi sensi.

Questa strategia ha funzionato: con il passare del tempo, le maglie si sono allargate e il club si è fatto gradualmente meno esclusivo. Dall’elitarismo al populismo il passo poi non è così affannato e arduo. L’amo è stato gettato e i pesci hanno abboccato nella Rete.

Permane lo status necessario di invitato ma, ovviamente, col tempo questo meccanismo si sbloccherà e questa app tenderà ad insidiarsi nei nostri cellulari diventando parte integrante della nostra second life. Anche perché, come ho scritto sopra, la genialità è sicuramente nell’intenzione dell’esclusività. Alla fine, ci accorgiamo di appartenere tutti ad un inverosimile albero genealogico: tutti figli dell’influencer o del milionario o del guru più importante in Terra.

Io, Pinco Pallo, se sono entrato a far parte di questo Club è perché, alla fine di questa interminabile fiera, conosco qualcuno che conosce quel qualcuno che ha visto quello che ha… e così via, fino ad un crescendo di illusioni.

Oggi entrare in Clubhouse è più facile e basta mettersi in lista di attesa e aspettare che qualche conoscente dia lo start dall’interno. Insomma, è l’esatta apoteosi del morbo di vipismo di cui soffriamo. Una accelerata al tripudio “io so io e voi non siete un…”

In effetti non è un social qualunque ma nella sua banalità è pioneristico: una casta che si apre al mondo plebeo, un verticismo insulso e terrificante ma che schiude spiragli e successi a chi già di vede imperatore di questo nuovo network. Da una stanza virtuale alla casa del GFVIP il passo è breve.

L’unicità passa anche dalla scelta, al momento, di poter essere installato solo sugli I-Phone (è disponibile solamente su iOS). In Clubhouse, poi, si può entrare anche grazie al proprio profilo di Twitter o di Instagram, ma non da Facebook.

Ciò nonostante il suo inventore, Mark Zuckerberg non è rimasto esente dalla tentazione di partecipare al nuovo social. Ha fatto una comparsa, mentre Elon Musk si è presentato nella doppia veste di intervistato e intervistatore parlando di Marte, di Neuralink, di meme, di Tesla e del futuro che verrà. Qualcuno sta dicendo e scrivendo che su E-bay e su Reddit si trovano accessi a pagamento.

L’idea che distingue Clubhouse dagli altri social è che si usa solo la voce e si parla in diretta. Chi vuole ascoltare può entrare nelle «stanze» che l’app gli propone, secondo gli interessi che ha specificato: dalla politica all’arte, dalla cucina all’identità. No foto, no video, nulla se non la voce. Quello che sei è quello che dici. Nulla resta registrato nelle room dove si trattano gli argomenti più disparati.

La platea delle voci è “controllata” dal palco dei moderatori. Per parlare devi alzare la mano ma puoi anche solo ascoltare. La policy del social mette in guardia tutti a non fare nomi e a non citare nessuno pena l’essere bannato in eterno.

Ogni iscritto al social riceve due inviti da estendere. Non si dicono parolacce, non si deve utilizzare un linguaggio violento. Non si possono memorizzare le conversazioni né riportane i contenuti. Un quarto potere elitario.

Cosa mi spaventa oltre la mia noia quando mi approccio ai social? Questa aurea di esclusività imbruttita. Non c’è un cammino da seguire, una comune volontà di seguire una Idea o una Persona. Non c’è un aspetto godereccio, né rivoluzionario.

C’è una strategia che partendo dall’alto (sic!) chiede al normal people di aspettare la sua ora. Se verrà. Questo social dice chi sei e chi, soprattutto, non sei. Al momento, almeno se manterrà questa sua volontà di essere un social di nicchia.

Altro punto che mi sconcerta: usciamo (forse) da una serie di lockdown che ci hanno messo a dura prova. Isolamenti forzati che dovrebbero spingerci a vivere open ogni attimo. E per open intendo con libertà aprendoci a tutti con equilibrio e rispetto. Invece, preferiamo un social basato sulla sola voce che ci consente in una room di vivere ex novo claustrofobicamente.

Questa pandemia ci ha insegnato a vivere nell’ombra del digitale e sopperire alla realtà diventando anche noi un fantasma? Aspettando il lusso dell’invito, accettando l’attesa del biglietto di ingresso come un provvidenziale passepartout del benessere intellettuale.

Clubhouse ha le sue ragioni e nell’incontrastata economia della nuova frontiera tecnologica ha aperto lo spiraglio dell’esclusività illudendo l’apertura graduale a chiunque. La logica (finta) del chi ha più santi in paradiso.

Lato positivo è che mostra una certa etica, chiaramente voluta ed imposta dal focus che i social stanno subendo per i germi di violenza che trasmettono e per l’ombra sempre più minacciosa di una cultura nera che sembra sgorgare dal display. TikTok ne è un esempio.

Questo interesse alla conversazione, all’ascolto e alla capacità di rispettare il ruolo e l’idea non sono banali e potrebbero rivelarsi audacemente intelligenti e utili in futuro.

Quello che ci deve preoccupare è che una nuova app determini i ritmi dei nostri neuroni, trasportandoci in un nuovo isolamento dove il confine tra l’essere escluso ed appartenere ad un club esclusivo è molto labile. Dove “sentirsi privilegiato” e “soffrire per il non sentirsi” potrebbe generare un nuovo coprifuoco nell’anima.

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.