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Cancellato bacio non consensuale a Biancaneve


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È entrata nel nostro dibattito pubblico come una inquietudine, come un assillo, come uno spettro che si aggira nelle comuni discussioni in TV e sui giornali.

È la “cancel culture” che da anni ruotava nel mondo anglosassone: ha divorato la storia del “bacio non consensuale di Biancaneve”, i monologhi di alcuni comici, alcuni interventi politici e di uomini di cultura.

“To cancel” è entrato nel gergo degli afroamericani, per poi, come spesso accade, si parla di culture appropriation, essere preso e adoperato contro di loro dai bianchi, per poi esplodere su Twitter nel “To cancel someone” che diviene, quindi, un modo per intendere lo “smettere di seguire” e il “togliere il supporto”. Chiamata call-out culture, questa parola sta a significare anche ostracismo. Come una forma di estromissione, di supporto che viene a mancare.

Per alcuni è una bolla di sapone che serve a sgonfiare l’attitudine o la volontà di fornire espressioni critiche ordinarie, per altri è una minaccia alla libertà di pensiero in nome dell’inquisitorio politicamente corretto.

All’inizio, nel gergo dei social, “cancelled” designava una presa di posizione in prevalenza personale riguardo a qualcuno che aveva detto o fatto qualcosa ritenuto inadatto.

Lo abbiamo sfiorato qualche settimana fa nell’articolo su Philiph Roth e il suo biografo Uomini, geni e maledetti, ne parliamo oggi in maniera più approfondita. La tendenza determina la gogna e il boicottaggio social di personaggi pubblici che, in un qualche caso, si sono pronunciati in maniera considerata discutibile su temi delicati.

Oramai parlare di razzismo, di sesso e di genere, di minoranze presuppone un attacco, una difesa e un contro-attacco: il rischio di essere apostrofati come razzisti, sessisti, omofobi e intolleranti è certo.

Non si pretende una sensibilità di linguaggio e di espressione, si vuole la legittimazione di pensare ciò che si ritiene assoluto, veritiero e puro: vanno evitate le parole che nessuno deve profferire, vi è una violazione a priori di ogni sacro principio, si ha la ferrea urgenza di introdurre un lessico comune, inconfondibile, integralista nella sua paradossale apertura al tutto e al niente.

Potremmo pensare che il fine ultimo dei signori della parola sia quello di silenziarci tutti, con il rischio di una claustrofobica via di uscita se non quella di chiuderci in noi stessi ed evitare ogni commento, ogni ardita riflessione. Oggi è quasi una class action contro uno scrittore, un professore, un professionista. Non basta un errore da rilevanza penale, conta anche l’esternare un pensiero che viene considerato inaccettabile o in controtendenza al comune filone ideologico.

Diciamolo francamente quella in corso è, in realtà, l’ultima versione della contesa intorno al linguaggio inclusivo e ai limiti della libertà di espressione. Ovvero quella che molti in politica, soprattutto, definiscono una ossessione, una dittatura, una follia.

Se pensiamo ad Orwell, ci viene in mente quello che faceva il funzionario del Ministero della Verità che in 1984, Syme: egli era incaricato di redigere il dizionario della Neolingua e, quindi, le sue decisioni pendevano soprattutto all’uso dell’abolizione.

Ogni cosa può essere cancellata: l’arte, la vita, l’opinione e su ognuna di essa di può rivedere il parere e attribuirgli nuovi effetti. Un eroe di questa epoca può mutare in tiranno in quella successiva. Si contrasta il passato per eliminare il presente. Oggi l’uso distorto delle parole impatta tutti, dove ognuno deve eseguire un ruolo pragmaticamente kafkiano. Bisogna stare nel grigio dell’ingessatura decontestualizzata, sotto l’egemonia culturale del politicamente corretto, con il pericolo di vivere l’intransigente e sproporzionata attitudine alla sanzione, al pubblico ludibrio, alla censura della censura come un ridicolo e violento rogo delle idee e dei simboli.

Io leggo nelle istituzioni l’anello debole: troppo agevolmente fragili nel cedere alla protesta di ogni piazza reale o virtuale che sia, pronta a biasimare le idee scomode o meglio non allineate.

In questo vortice di pentimenti e di accuse è semplicemente facile trovare una ragazza accusata di stupro come la vera tentatrice e circe delle fantasie erotiche di qualche ragazzo di buona famiglia, o incontrare un editore che ritira l’ultima pubblicazione di un autore incriminato o una catena editoriale che boicotti il libro di un politico avverso, un film storicamente romantico venga imputato di veicolare lo schiavismo… e potremmo continuare.

Ci ricordiamo tutti del caso del regista Woody Allen: alienato da Amazon per le accuse di molestie e violenze di decenni or sono, al netto di indagini che lo hanno scagionato, che si è visto annullare la distribuzione del suo ultimo film e della sua autobiografia. Un’ecatombe dittatoriale che vede un colosso bruciare l’arte di uno degli uomini più geniali ancora in vita.

Alla base di questa infamia c’è il tradizionale boicottaggio che diventa pressione collettiva. Con i social partecipare al vilipendio oggi è più semplice, diventa un gioco al massacro da quarto potere, nulla è inarrestabile nulla è decifrabile. Diciamolo chiaramente non è un fenomeno nuovo che le aziende si dispongano alle sensibilità dei loro clienti che, così facendo, assumono la guida e ne indirizzano la linea.

L’arte del cancellare è ambigua e non ha confini politici: da destra a sinistra è rivendicata ma anche denigrata. A tutti inquieta ma per tutti utilissima nella logica del marchiare; eppure la riconosciamo come uno strumento di attivismo e di lotta politica di un popolare progressismo contemporaneo con il rischio intrinseco di gestire in maniera sbrigativa e sommaria problematiche di una certa caratura, come quella della disuguaglianza razziale e sessuale.

È il potere di chi non ha voce, di chi non può partecipare al discussione, ma che vede la possibilità di acquisire il suo spazio di confronto e di influenza. Un altro forte rischio è quello di impoverire il dibattito intellettuale incorporandolo in un paradigma rigido, senza sfumature e senza differenze.

Il paradosso di chi vuole difendere distruggendo a volte con intimidazioni a volte sfruttando ondate di violenza in quello che sta diventando sempre di più una patologia che non sa più distinguere tra sensibilità collettiva e inclusione individuale.

I social media hanno dato alle persone comuni un modo per parlare a quelle società e istituzioni che in passato sarebbe stato difficile, se non impossibile, raggiungere. Per molti questa nuova rivendicazione ha la pretesa di richiedere un linguaggio che abbia una comunicazione più rispettosa ed efficace, che tenga seriamente conto delle diversità e che non obblighi ad abituarsi alla banalità dell’offesa e del pregiudizio.

Mai come oggi ognuno di noi si può sentire parte di un processo di confronto dove il dibattito non è elitario e riservato a chi appartiene ad una lobby o ad una casta precisa ma aperto e dinamico, con l’enorme difetto che nella sua immaturità, resta lontano, comunque, anni luce dalla massima erroneamente attribuita a Voltaire, ma, in realtà detta dalla scrittrice Evelyn Beatrice Hall nella biografia del filosofo francese:

Disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo.
Evelyn Beatrice Hall – ‘Gli amici di Voltaire’

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.