L’Europa non è un luogo, ma un’idea.
Bernard-Henri Levy
Immaginiamo un mondo in cui il conflitto sembra essere una costante, un’ombra che si allunga su epoche e continenti, cambiando forma ma mai sostanza, un’eco di ambizioni, paure e interessi che si scontrano senza sosta.
Immaginiamolo o viviamolo.
Perché oggi, nel 2025, questa realtà ci guarda dritto negli occhi e l’Europa, con la sua storia di guerre e rinascite, si trova ancora una volta al centro di un crocevia, sospesa tra il sogno di un’unità, che ha sempre inseguito, e le crepe che la attraversano, amplificate da ciò che accade appena oltre i suoi confini orientali, in Ucraina, e dalle parole di un uomo che dall’altra parte dell’Atlantico scuote certezze consolidate: Donald Trump.
È un momento in cui lo spirito europeista, quel desiderio di pace e cooperazione nato dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, viene messo alla prova, non solo dalle bombe che cadono su Kyiv o dai carri armati che avanzano nel Donbass, ma anche da una domanda che si fa strada tra i cittadini e i leader del Vecchio Continente: possiamo davvero essere uniti, autonomi, forti, quando il mondo intorno a noi sembra voler riscrivere le regole del gioco?
Pensiamo per un attimo a cos’è stato il conflitto nel mondo, perché non si può capire l’Europa di oggi senza guardarsi indietro. La storia umana è un mosaico di scontri, dalle guerre tribali alle campagne di Alessandro Magno, dalle crociate alle conquiste coloniali, fino ai due grandi incendi del Novecento che hanno devastato il pianeta.
L’Europa, in particolare, è stata per secoli un teatro di battaglie, un luogo dove re, imperatori e nazioni si sono affrontati per il dominio, lasciando dietro di sé rovine e un desiderio profondo di cambiare rotta.
Dopo il 1945, quel desiderio ha preso forma in un’idea semplice ma rivoluzionaria: se ci uniamo, se mettiamo da parte le rivalità, forse possiamo evitare che tutto questo accada di nuovo.
È nato così lo spirito europeista, un progetto che non era solo economico o politico, ma anche morale, un sogno di pace che ha trovato nella Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio prima, e nell’Unione europea poi, una strada concreta per realizzarsi.
Eppure, questo sogno non è mai stato privo di ostacoli: le divisioni tra Est e Ovest durante la Guerra Fredda, i nazionalismi che rialzano la testa, le crisi economiche che mettono in discussione la solidarietà.
E oggi, mentre il mondo sembra frammentarsi di nuovo, tra l’ascesa della Cina, le tensioni in Medio Oriente e il conflitto in Ucraina, l’Europa si chiede se quel sogno abbia ancora la forza di reggere.
L’Ucraina è il cuore pulsante di questa riflessione, un Paese che non fa parte dell’UE ma che, in qualche modo, ne incarna le speranze e le paure. Dal 24 febbraio 2022, quando la Russia ha invaso il suo territorio, il conflitto ha riportato la guerra sul suolo europeo, o almeno ai suoi confini, rompendo l’illusione che il continente potesse essere immune da quel tipo di violenza.
È una guerra che non si combatte solo con i fucili e i droni, ma anche con il gas, le sanzioni, i profughi che attraversano le frontiere, un conflitto che ha costretto l’Europa a guardarsi allo specchio.
All’inizio, la risposta è stata sorprendente: un’unità che molti non si aspettavano, con aiuti militari e umanitari, un’accoglienza senza precedenti per milioni di ucraini in fuga, una voce comune contro l’aggressione di Vladimir Putin.
Ma con il passare dei mesi, e poi degli anni, le crepe sono emerse. Alcuni Paesi, come Polonia e Baltici, vedono in questa guerra una minaccia esistenziale, un’eco della loro storia sotto il dominio sovietico; altri, come l’Ungheria di Viktor Orbán, flirtano con Mosca, mettendo in discussione l’idea stessa di solidarietà europea.
E poi c’è la Germania, che spende poco per la difesa ma si oppone ai dazi contro la Cina, o la Francia di Macron, che parla di autonomia strategica ma fatica a tradurla in azione.
Lo spirito europeista, che dovrebbe essere il collante di tutto questo, si trova così ad oscillare tra slanci ideali e pragmatismi nazionali. E qui entra in gioco Donald Trump, una figura che con le sue parole e le sue azioni sta ridisegnando il rapporto tra Europa e Stati Uniti, quel pilastro transatlantico che per decenni ha garantito la sicurezza del continente.
Rieletto nel 2024, Trump è tornato alla Casa Bianca con un messaggio chiaro: America First, ancora una volta.
Ma se durante il suo primo mandato aveva già scosso la NATO, chiedendo agli europei di spendere di più per la difesa, ora il suo impatto è ancora più profondo, soprattutto sull’Ucraina.
Ha promesso di risolvere il conflitto in fretta, prima in 24 ore, poi in sei mesi, ora si parla di cento giorni di negoziati, ma il come resta avvolto nel mistero.
Quel che è certo è che ha sospeso gli aiuti militari a Kyiv, accusando Zelensky di non volere la pace, e ha fatto capire che gli Stati Uniti non intendono più essere il gendarme del mondo, o almeno non in Europa.
Senza di noi, avreste perso in 15 giorni
ha urlato a Zelensky in uno scontro senza precedenti nello Studio Ovale, un’immagine che ha fatto il giro del mondo e che ha lasciato l’Europa sotto shock.
Per Trump, l’Ucraina sembra essere una pedina in un gioco più grande, un’occasione per negoziare con Putin, forse cedendo territori in cambio di pace, o per ottenere risorse come le terre rare, un’idea che ha ventilato senza troppi dettagli.
E l’Europa?
Esclusa, per ora, dai negoziati, ridotta a spettatrice di un dialogo tra Washington e Mosca, che potrebbe decidere il destino del continente.
Questo ci porta a chiederci: cosa resta dello spirito europeista in tutto questo? È un’idea che nasceva dalla volontà di non dipendere più da potenze esterne, di essere artefici del proprio futuro, ma oggi l’Europa appare fragile, incerta.
Da un lato, c’è chi vede nella crisi ucraina un’opportunità per rafforzare l’Unione, per investire in una difesa comune, per dare a Kyiv una corsia preferenziale verso l’adesione, come un segnale che l’Europa non abbandona chi lotta per i suoi valori.
Dall’altro, c’è la realtà di un continente che fatica a parlare con una voce sola, che dipende ancora dagli Stati Uniti per la sicurezza e dalla Russia per l’energia, anche se meno di prima, grazie al gas liquefatto americano che ha triplicato le importazioni dopo l’invasione.
Le parole di Trump, con la loro brutalità, mettono a nudo questa dipendenza:
L’Europa è stata creata per fregare gli USA.
Lo ha detto, e forse non ha tutti i torti, se pensiamo a quanto il continente abbia beneficiato della protezione americana senza mai costruire un’autonomia vera.
Ma quelle stesse parole sono anche un monito, un invito a svegliarsi, a scegliere se restare ancorati a un’alleanza che vacilla o prendere in mano il proprio destino.
Il conflitto nel mondo, allora, non è solo quello che vediamo in Ucraina o nelle tensioni tra grandi potenze, ma anche quello interno all’Europa, tra chi vuole un’Unione più forte e chi si rifugia nei propri confini. È il conflitto tra l’idealismo di un progetto nato per la pace e la realpolitik di un presente che richiede decisioni difficili.
Trump, con il suo approccio transazionale, ci costringe a guardare in faccia questa contraddizione: se gli Stati Uniti si ritirano, se la NATO perde peso, se l’Ucraina viene lasciata sola o costretta ad un accordo che non vuole, l’Europa sarà capace di riempire quel vuoto?
Alcuni dicono di sì, puntando sui 200 miliardi di beni russi congelati che potrebbero essere usati per sostenere Kyiv, o su un’industria della difesa che sta finalmente accelerando.
Altri temono che senza l’America, il continente si frammenti, che Putin ne approfitti per testare le nostre difese, come già avvertono i Servizi segreti da Riga a Berlino. È un momento di svolta, un bivio che potrebbe definire il futuro non solo dell’Europa, ma del mondo intero.
E mentre scriviamo queste parole, il conflitto continua, le sirene suonano ancora in Ucraina, Trump twitta dal suo account Truth e i leader europei si riuniscono in vertici che sembrano più reattivi che propositivi.
Lo spirito europeista, però, non è morto: è ferito, forse, ma ha dimostrato in passato di sapersi rialzare. Dipende da noi, da cosa vogliamo che sia l’Europa domani, se un’isola di pace in un mare di conflitti o solo un altro campo di battaglia. La storia ci guarda, e non aspetta.
Non è più colpa di Voltaire, Rousseau, Mosca, gli ebrei, i massoni, il papa, Dio. È sempre colpa di Bruxelles.
Bernard Pivot

Autore Massimo Frenda
Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.