La domanda arriva sempre così. In punta di labbra, mentre si prepara il caffè o si risponde per l’ennesima volta a un messaggio del gruppo WhatsApp della scuola.
Non è mai un interrogativo urlato, drammatico, da prima serata. È più spesso un dubbio che si infila tra una cosa e l’altra, come una spina piccola che però punge ogni volta che la mente ci ritorna.
Mio figlio ha nove anni. I compagni ce l’hanno già. Dice che si sente escluso. Che non può giocare con gli altri. Che lo prendono in giro. Che non può avere il numero del suo amico. Che “è l’unico senza”.
La madre ansiosa si tormenta. Si chiede se non stia tenendolo troppo indietro. Se non stia condannandolo a una forma precoce di marginalità.
La madre tecnologica sorride e dice:
Meglio abituarlo ora, così impara.
La madre social, quella che condivide tutto con filtro seppia e caption motivazionale, scuote la testa e rassicura:
Ma dai, basta il parental control.
E mentre ci si confronta, si ragiona, si dubita, in silenzio, cresce una generazione connessa e confusa.
Una generazione che ha tutto sotto controllo, tranne sé stessa. Una generazione a cui abbiamo consegnato lo strumento più potente che esista, e ci sorprendiamo se ci sfugge di mano.
Perché il punto non è tanto quando dare uno smartphone. Il punto è cosa stiamo dando davvero.
Uno smartphone non è un telefono. E non lo è mai stato. È un computer portatile, una televisione tascabile, una macchina fotografica perenne, un centro commerciale digitale, una sala giochi, una piattaforma per i voti e le critiche, un diario segreto che però chiunque può leggere.
È un oggetto che non serve solo a comunicare, ma che registra, analizza, profila. È un radar sempre acceso. E registra tutto. Anche quello che un bambino non sa nemmeno di mostrare: le sue abitudini, le sue fragilità, i suoi gusti, i suoi silenzi.
Se fosse un giocattolo qualunque, non ci porremmo il problema. Ma siccome è una finestra spalancata sul mondo e, cosa meno discussa, una finestra che permette al mondo di entrare in casa, allora forse qualche domanda dobbiamo farcela. Non tanto per essere severi, quanto per non essere ciechi.
Davvero un bambino di otto anni ha gli strumenti per gestire tutto questo? Davvero basta una regola scritta sul frigorifero o una app per il controllo parentale per proteggerlo da quello che nemmeno gli adulti riescono a gestire del tutto?
La verità è che non esiste un’età giusta universale. Non c’è scritto da nessuna parte quando sia il momento perfetto. Ma esiste un principio semplice, difficile da attuare: non confondere l’età anagrafica con quella emotiva. Non cedere alla pressione degli altri. Non decidere solo per paura che si senta escluso.
Uno smartphone, a quell’età, non è solo uno strumento. È un catalizzatore. Espone al confronto, all’ansia da prestazione, all’autostima a punti, alla gratificazione rapida e alla solitudine lunga.
Aprire quella porta troppo presto non significa solo anticipare un mezzo: significa anticipare una serie di dinamiche che prima non esistevano. E che, una volta entrate, non si possono più fermare.
Quindi, a che età?
Quando tuo figlio è pronto a dire di no. Non a te, ma al mondo. Quando sa distinguere un like da un gesto sincero. Quando capisce che spegnere lo schermo non è una punizione, ma un gesto di libertà. Quando inizia a chiedersi perché vuole avere un telefono, e non solo quando.
E se quest’età arriva dopo quella dei compagni, pazienza. Non è un fallimento. Non è un ritardo. È una scelta educativa. Ed è una delle poche che non si può delegare a una app.
Non servono crociate contro la tecnologia. Né divieti rigidi come muri. E nemmeno aperture incondizionate. Serve qualcosa di più faticoso e delicato: accompagnare.
Guardare insieme. Spiegare. Ascoltare. Dire di no senza vergognarsene. Dire di sì quando è giusto, ma non per comodità o per emulazione.
Un figlio ha bisogno di connessione, certo. Ma prima con i genitori, poi col Wi-Fi.
Ha bisogno di sentirsi parte di qualcosa. E quel qualcosa deve essere un rapporto vivo, non una notifica. Un dialogo, non una chat. Uno sguardo, non uno schermo.
E in fondo, se ci pensi, abbiamo aspettato per il primo giorno di scuola, per la prima bici, per il primo gelato da soli. Perché mai dovremmo avere così fretta per il primo smartphone?
Chi ama protegge. Ma chi protegge non isola. Protegge mettendosi accanto, non davanti. A volte lasciando che inciampi, ma non che si perda. E uno smartphone, lo sappiamo bene, può essere occasione di crescita o inizio di smarrimento.
È un dono. Ma come tutti i doni importanti, va dato con misura. Con tempo. Con parole. E, soprattutto, con esempio. Perché non serve dirgli “stacca dal telefono” se siamo noi i primi ad accenderlo a tavola, in macchina, mentre parlano.
A guardarli bene, ai nostri figli non serve uno schermo. Serve uno sguardo attento, curioso, paziente.
Serve una voce che spiega e non impone. Serve una mano da stringere, anche quando ormai credevamo fosse troppo tardi.
E forse, proprio lì, sta il nostro vero touch screen.
Autore Gianni Dell'Aiuto
Gianni Dell'Aiuto (Volterra, 1965), avvocato, giurista d'impresa specializzato nelle problematiche della rete. Di origine toscana, vive e lavora prevalentemente a Roma. Ha da sempre affiancato alla professione forense una proficua attività letteraria e di divulgazione. Ha dedicato due libri all'Homo Googlis, definizione da lui stesso creata, il protagonista della rivoluzione digitale, l'uomo con lo smartphone in mano.













