Home Cultura Nobel a Dylan, intervista esclusiva al prof. Carrera

Nobel a Dylan, intervista esclusiva al prof. Carrera

4990
Alessandro Carrera Bob Dylan


Download PDF

“Vi racconto perché, alla fine, andrà a ritirare il Nobel”
Dal 24 novembre, novità dylaniane in libreria a cura dello studioso

Dopo quindici interminabili giorni, finalmente Mr. Bob Dylan parlò.

Dal 13 ottobre scorso, giorno in cui l’Accademia di Svezia ha conferito al più influente dei cantautori il premio Nobel per la Letteratura, i dibattiti sul suo silenzio di sono sprecati: in tv, sui giornali e perfino sugli autobus le domande erano due, se Dylan meritava o meno ‘IL Premio’ per antonomasia e che significato avesse il suo ostinato, fragoroso, sublime silenzio.

Silenzio che l’interessato ha scelto di rompere attraverso le colonne del Daily Telegraph, concedendo un’intervista in esclusiva pubblicata il 29 ottobre.

Una gran bella cosa, è incredibile. Chi lo avrebbe immaginato?

dice Dylan ad Edna Gundersen, rivelando anche di aver parlato con la segretaria permanente dell’Accademia di Svezia, Sara Danius, per confermare l’accettazione del premio.

Nebbia diradata, dunque? Non del tutto. Un po’ dell’affascinante foschia che da sempre accompagna la sfuggente personalità dell’artista, riappare quando gli viene chiesto se sarà fisicamente presente alla tradizionale cerimonia di conferimento del 10 dicembre.

Ci andrò, se posso

risponde serafico.

Nell’attesa di sapere cosa deciderà lo sfingico cantautore americano, ExPartibus ha interpellato la personalità più autorevole in materia di Dylan, il professor Alessandro Carrera, docente di Letteratura Italiana alla University of Houston, in Texas, USA.

Dagli esordi, negli anni ’70, come cantautore, alla laurea in Filosofia Teoretica conseguita presso l’Università di Milano fino alle cattedre americane e canadesi, la carriera del professor Carrera vanta collaborazioni con le più importanti pubblicazioni di settore, oltre a numerosi riconoscimenti, tra i quali il premio letterario Eugenio Montale, il premio Arturo Loria per il racconto, il premio Bertolucci per la critica letteraria e un’infinità di altre referenze che è impossibile elencare qui in maniera esaustiva.

La sua importante attività di saggista, traduttore e critico musicale, comprende lo splendido saggio ‘La voce di Bob Dylan – una spiegazione dell’America’ (Feltrinelli, nuova edizione 2011, 396 pp.) e l’edizione italiana del libro autobiografico di Dylan ‘Chronicles – vol. 1’ (Feltrinelli, 2005).

Professor Carrera, cominciamo con la prima delle due domande virali di cui sopra: Bob Dylan meritava davvero il premio Nobel?

Forse questa domanda non bisognerebbe farla a me, perché sono troppo interessato.

Posso dire che dal 1997 Dylan era candidato al Nobel. Conosco la persona che ha raccolto le firme per promuovere la sua candidatura, Gordon Ball, ex collaboratore di Allen Ginsberg, molto attivo nella scena beat newyorkese, autore del libro ‘66 Frames’, in seguito diventato professore d’Inglese in un Istituto Militare in Virginia, mantenendo, però, un legame sempre molto forte con gli anni della sua giovinezza e delle sue militanze culturali. Da allora, quindi, la notizia si era sparsa e, di conseguenza, ogni anno c’era chi si aspettava che davvero Dylan potesse ricevere il Nobel.

Sembrava improbabile, perché l’Accademia di Svezia ha in molti casi espresso pareri decisamente espliciti sulla letteratura americana, definendola non abbastanza cosmopolita, un po’ provinciale, un po’ chiusa su se stessa. È pur vero che, per certi aspetti, la decisione di affidare il Nobel a Dylan può suonare un po’ come uno schiaffo alla letteratura ufficiale americana. Però io non penso che sia un Nobel contro Philip Roth, Don DeLillo o Richard Ford, cioè i grandi scrittori americani di oggi.

È piuttosto un Nobel che riconosce una figura unica, nel senso che ci sono tanti poeti e scrittori che meritano di essere definiti tali più di Dylan. Però, per qualche motivo, di Dylan ce n’è uno solo. E non ne vedremo un altro. Almeno non in tempi brevi.

Quindi possiamo dire che è giusto aprire i canoni letterari alla musica d’Autore? In fondo nelle scuole italiane già si studiano De André, Gaber e Conte.

Sì, senz’altro. È naturale che ciò porti a frizioni e fraintendimenti con la poesia, è inevitabile. Però bisogna pensare due cose: primo che la canzone, sotto moltissime forme, come quella che aveva nel Medioevo, nel Rinascimento e anche nel ‘700, ha sempre fatto parte della letteratura.

Non parlo di tutte le canzoni, ovviamente. Moltissime canzoni non valgono niente adesso come non valevano niente nel ‘600, ma ci sono anche moltissime poesie che non valgono niente, quindi il discorso non deve essere fatto in termini di contrapposizione tra poesia e canzone. La canzone è parte della storia della letteratura come lo è il libretto d’opera, poi bisogna individuare gli autori particolarmente significativi che, agendo nel proprio campo, sia esso il libretto d’opera o il rock, riescano a dire qualcosa che si irradi su tutti i generi letterari. Dylan è un caso di questi.

Non per niente, infatti, Sara Danius ha paragonato Dylan a Omero e Saffo, perché ‘scrissero testi che dovevano essere interpretati o ascoltati anche con l’accompagnamento di strumenti musicali’.

Sì. Anche se sappiamo poco di come veramente venissero cantate queste poesie antiche, non abbiamo testimonianze sufficienti per capire quale fosse la ritmicità, la scansione con le quali venivano eseguite. Probabilmente non erano neanche ‘cantate’ come intendiamo noi oggi, ma piuttosto cadenzate. Non lo sappiamo con certezza, abbiamo riferimenti certi solo a partire dal Medioevo.
Quello che sappiamo di sicuro è che nell’antichità non si concepiva la poesia se non assieme a qualche forma di musica.

Ma c’è un’altra cosa da dire: i poeti contemporanei, dall’invenzione della stampa, si sono gradualmente affidati sempre più alla pagina scritta, ai suoi pieni e ai suoi vuoti. Va da sé che leggere una poesia non è la stessa cosa che ascoltare una canzone. Anche quando la canzone viene trascritta, si percepisce chiaramente che ha bisogno di un altro elemento che la completi, la parte musicale. Però quello che vorrei dire è che la poesia non è sempre stata pensata per la pagina.

Nel Medioevo le poesie venivano scritte senza andare a capo, occupavano tutto lo spazio della pagina. Quindi la sensazione di allargamento o restrizione che proviamo quando vediamo la pagina bianca sulla quale i caratteri del testo appaiono come pochi puntini neri, come ad esempio accade nelle poesie ermetiche su cui siamo cresciuti tutti, dobbiamo tener presente che si tratta di un linguaggio che c’è oggi ma potrebbe non esserci più domani. In sintesi, la poesia non è legata alla pagina.
È molto più antica, esisterebbe anche se non ci fossero i libri.

Prima che Dylan rompesse il silenzio sull’accettazione del premio, Adam Kirsh, sul New York Times del 26 ottobre, ha proposto un parallelismo con Sartre, che nel ’64 rifiutò il Nobel, prospettando l’ipotesi che il poeta di Duluth potesse fare la stessa scelta.
Lei ha contemplato questa possibilità, durante il lungo silenzio dilaniano?

No. Non ho mai creduto che potesse veramente rifiutarlo. Pensavo, piuttosto, che Dylan ha accettato molti premi importanti nella sua carriera ed è già stato in Svezia per il Polar Music Prize del 2000.
Lui non è molto a suo agio in situazioni ufficiali. Anzi è molto a disagio, non è capace rispettare i protocolli, di parlare in pubblico, se non quando si rivolge ai musicisti, a gente che, in qualche modo, abbia condiviso il suo cammino.
È fatto così, è nato per cantare.

Durante il suo silenzio ho immaginato che fosse terrorizzato all’idea di doversi presentare come scrittore, cosa che non ha mai fatto. Doversi presentare pubblicamente davanti al mondo intero come autore, come poeta, seguendo un protocollo consolidato deve averlo messo in agitazione. Anche se, in fondo, l’Accademia di Svezia non è poi così rigida. Probabilmente, se invece di tenere un discorso, Dylan preferisse fare un concerto, sarebbero contenti lo stesso.

Immaginavo che si stesse domandando ‘Oddio, adesso cosa faccio? Cosa vado a dire, come mi vesto, come devo comportarmi?’
Nel 2000, per il Polar Prize, effettivamente ha sbagliato tutto il protocollo, non riusciva a seguirlo e alla fine non è neanche andato alla cena con il Re di Svezia. Chissà se non ne poteva più o temeva di fare qualche gaffe.
Chi lo sa. Dopo il Nobel si è preparato per due settimane prima di dire ‘sì va bene, lo accetto’, poi si è riservato dicendo ‘andrò a ritirarlo, se posso’.
Ma alla fine sono sicuro che ci andrà.

Bob Dylan riceve il Polar Prize, 2000

Guardando alla storia di Dylan nel suo complesso, bisogna dire che ha sempre mischiato le carte in tavola. Dopo aver preso lezioni di pittura da Norman Raeben, ha cominciato a sperimentare nuovi modi di scrivere canzoni, cercando di applicare al testo le stesse tecniche che stava studiando per la pittura. Oggi è anche un pittore piuttosto affermato e di recente ha realizzato perfino un’enorme scultura in ferro, inaugurata nel Maryland per un famoso casinò. Ha quindi quasi sempre cercato un interscambio fra le varie forme di espressione artistica: la letteratura che entra nella canzonetta o, viceversa, la canzone che diventa pittura, eccetera. Tutto ciò cosa rivela, secondo Lei, di Dylan? È una ricerca istintiva? Si tratta di bulimia artistica o piuttosto è il suo atavico terrore di essere rigidamente etichettato e incasellato che lo spinge a cercare sempre nuove strade, quasi nel tentativo di mettersi continuamente in discussione e persino di rinnegare se stesso?

C’è molto d’istintivo, naturalmente. Dylan proviene dalla tradizione orale, non tanto da quella scritta, fatta eccezione per le sue letture di poesie e letteratura.
I suoi punti di riferimento sono stati la tradizione orale, cioè la ballata folk, il blues, il gospel, il country, la ballata di varie derivazioni europee, come quella degli Appalachi, il country, la ballata Western, la musica afro-americana.

Tutte queste cose sono forme di un’arte collettiva composta da pezzi intercambiabili, sono operazioni di collage. Dylan ha imparato questo principio nei suoi anni giovanili. Ci sono molte delle sue prime canzoni che si possono definire, essenzialmente, collage di altre canzoni. Come anche alcune delle recenti, per altro. Perché il metodo non è mai interamente cambiato e questo è un prodotto della tradizione orale che presuppone una grande libertà di appropriazione e anche una grande libertà di ‘furto’. Già, si tratta anche di questo.

‘Love and Theft’…

Si tratta di prendere qualunque cosa che vada bene per dire ciò che si vuole, ovunque capita.

Pare dunque di capire che l’annosa questione delle citazioni inserite a piene mani nei suoi testi, che ogni tanto fanno gridare a qualcuno al plagio, sia in realtà frutto di un’analisi superficiale. Nelle università, in effetti, si studia il fenomeno del remixing, che consiste nel creare qualcosa di nuovo prendendo qua e là cose preesistenti per poi miscelarle tra loro. Kirby Ferguson sostiene, addirittura, che niente è originale e tutto è remix. Copy, transform, combine. Sostanzialmente, l’importante è chi lo fa e come lo fa?

L’importante è il risultato. Ci sono canzoni di Dylan che, come ho scritto nelle note delle mie traduzioni che a breve verranno ristampate, arrivando fino agli ultimi dischi (vedi in fondo all’articolo, ndr) sono fatte di titoli di altre canzoni. Ogni verso, cioè, è il titolo di un’altra canzone leggermente rielaborato. Eppure lo si legge dall’inizio alla fine e ne emerge una creazione originale. Benché non ci sia nessuna frase di per sé originale, il risultato lo è.

Va detto che questa è stata una delle grandi tecniche del modernismo poetico anglosassone, quello, cioè, che va da Pound ad Eliot fino a poeti più recenti come John Ashbery. Queste cose le hanno fatte loro, come le ha fatte William Burroughs.
Dylan li ha seguiti, talvolta inconsapevolmente. È stata una grande macchina di riciclaggio di significato, messa in moto fondamentalmente da Ezra Pound all’inizio del secolo scorso, poi continuata da molti altri e che arriva, in un certo senso, fino a Dylan. Il quale fa parte, che lo voglia o no, di un movimento di poesia modernista che si basa sull’appropriazione di frammenti, sul collage, sulla ricomposizione del senso della realtà che non è mai definitivo, ma sempre aperto a nuove interpretazioni, perché è basato proprio su questa funzione, un po’ da gazza ladra, che il poeta assume, citando Mallarmé, per dare un senso più puro alle parole della tribù.

‘La creatività è un remix’ di Kirby Ferguson

Mi ha molto colpito una frase che Lei scrive nel suo libro ‘La voce di Bob Dylan – una spiegazione dell’America’ e che ci dà modo di parlare di Dylan come interprete.
Lei scrive: ‘Dylan non interpreta le canzoni, le abita’. Cosa succede quando l’autore di canzoni sale sul palco e le interpreta, quasi sempre stravolgendo le versioni studio che tutti sono abituati ad ascoltare, noncurante del rischio di deludere il pubblico che, a dire il vero, da anni ormai è abituato al sadico modus operandi dell’artista dal vivo?

Dylan interpreta le canzoni come forme di vita. Come ha detto Stephen Stills, chitarrista e cantautore del gruppo Crosby, Stills, Nash and Young, le canzoni di Dylan sono come persone vive ed è questo che le rende diverse dalle altre. Nelle note di copertina di ‘Bringing It all back home’, lo stesso Dylan dice che la differenza fra una canzone e una poesia è che quest’ultima è una persona nuda, mentre l’altra è qualunque cosa che cammini da sola.
Ciò significa che nella poesia bisogna, appunto, denudarsi. Ma poi si resta lì, nudi. Mentre una canzone deve poter camminare: da un interprete a un altro, da una voce a un’altra e da un arrangiamento a un altro. È questa possibilità che rende la canzone una ‘forma di vita’ diversa da una poesia.  Ed è questo l’approccio di Dylan rispetto alle canzoni: ogni sera ha a che fare con delle creature diverse, in un certo senso.

Non è detto, quindi, che le suoni con lo stesso arrangiamento della sera prima, non è detto che le affronti con lo stesso tipo di vocalità. A volte azzecca, altre sbaglia, altre ancora fa esperimenti che non portano da nessuna parte, soprattutto dal vivo, più che in studio, e a volte imbrocca delle strade che portano a risultati che piacciono sia a lui sia al pubblico.

Dylan è uno dei pochissimi artisti che riesce nella singolare impresa di attrarre un pubblico che vuole rimanere sull’orlo della sedia, non essere rassicurato. Lo si va ad ascoltare per essere messo in questione come pubblico. Ci si chiede sempre cosa stia facendo e perché. In questo senso Dylan è assolutamente unico. Forse possiamo trovare qualcosa di paragonabile nella storia del teatro con alcuni grandi attori che riuscivano a cambiare completamente la loro interpretazione di personaggi shakespeariani da una sera all’altra. Dylan ha fatto e fa proprio questo con il suo repertorio e con le canzoni tratte dalla tradizione folk e altre cover che spesso inserisce nelle sue scalette.

Questo esperimento continua ormai da una vita, con alti e bassi.
Ma, indipendentemente dai risultati ondivaghi, è proprio qui che emerge l’unicità dell’artista: nessun altro si permetterebbe di andare in scena, con un’ora e mezza di spettacolo, senza inserire nemmeno una delle proprie canzoni di maggior successo.

Anche perché le case discografiche non consentirebbero mai ad un artista, sebbene di successo, di fare una scelta simile.

Nel caso di Dylan ci troviamo di fronte ad un Artista che si è conquistato il diritto di essere considerato uno a cui non si può dire niente.

Gli ultimi due album di Dylan, ‘Shadows in the Night’, del 2015 e ‘Fallen Angels’, uscito nel maggio di quest’anno, sono composti da sole cover. Per questo motivo qualcuno pensa che l’autore di ‘Blowin’ in the wind’ abbia rivelato una certa stanchezza creativa. Lei cosa ne pensa?

Se ‘Shadows in the night’ e ‘Fallen Angels’ fossero il prodotto di una fase di stanchezza creativa sarebbe, intanto, del tutto comprensibile. Dopo aver scritto 550 canzoni forse uno può anche rilassarsi. In realtà se guardiamo indietro nel tempo possiamo pensare che non è detto sia così.

Nei primi anni ’90, Dylan aveva inciso due dischi di folk songs, ‘Good as I Been to You’ e ‘World Gone Wrong’, seguiti da un album registrato dal vivo. Erano quindi passati circa sette anni, tra ‘Under the Red Sky’ e ‘Time Out of Mind’, senza un disco di canzoni nuove. In quel caso si stava preparando a una svolta che avrebbe segnato un nuovo corso nella sua carriera, inaugurato proprio con ‘Time Out of Mind’.

La svolta su Sinatra, a ben vedere, era stata anticipata da segnali che si possono cogliere ascoltando dischi recenti come ‘Modern Times’ e ‘Tempest’ in cui ci sono canzoni basate su melodie tipiche del repertorio di Bing Crosby, canzonette molto popolari in America di cui Dylan varia di poco la melodia e le arrangia facendole diventare quasi folk. Parliamo, per esempio, di pezzi come ‘Beyond the Horizon’, da ‘Modern times’.

Dopo questi esperimenti arriveranno le cover dal repertorio di Sinatra. C’è però da specificare che spesso si tratta in realtà di canzoni che appartenevano al repertorio di molti artisti, ma di cui sono diventate celebri le versioni di Sinatra.

Perché questa scelta? Si tratta, secondo me, del tentativo, da parte di Dylan, di appropriarsi di un’altra scuola musicale americana. La gazza ladra non perde il vizio. Dopo essersi appropriato della folk ballad, del blues, del rock e persino del gospel, nella fase dei dischi di ispirazione cristiana, e del rhythm and blues in generale, ecco il tentativo di appropriarsi dello standard pop.

Professor Carrera, qualche maligno afferma che il motivo per cui è stato assegnato il Nobel a Dylan anziché ad un letterato “puro” sta nel fatto che il personaggio tira molto di più, sul mercato, rispetto ad uno scrittore o ad un poeta, risultando più efficace nel rimpinguare le tasche del settore. È davvero così?

Francamente non sono d’accordo. Negli ultimi anni il Nobel è stato assegnato a scrittori che non sono particolarmente famosi al di là dei loro confini nazionali e al di fuori di una cerchia di intenditori, magari anche relativamente vasta. Non credo che tutti conoscano Imre Kertesz, Patrick Modiano o Wislawa Szymborska, tanto per citare nomi, rispettabilissimi, di personaggi insigniti del Nobel.
Non credo proprio, quindi, che l’Accademia di Svezia si muova seguendo le leggi di mercato. Se così fosse avrebbe già premiato Stephen King, ma non lo ha fatto. Il riconoscimento a Dylan non è un’operazione di mercato, l’Accademia non ragiona in questi termini.

È, piuttosto, uno di quei Nobel anomali che ogni tanto escono fuori. Ce ne sono stati almeno altri due, sempre per la letteratura: uno, lo conosciamo tutti, è quello a Dario Fo nel 1997. L’altro a Winston Churchill nel 1953.

Cito di nuovo il suo ‘La voce di Bob Dylan’, questa volta soffermandomi sul significato del titolo. Lei spiega che prima ancora del valore testuale delle canzoni di Dylan, la vera rivoluzione culturale operata dall’artista risiede nell’effetto della sua particolarissima vocalità. Quale segreto si nasconde nella voce stridula e nasale di Robert Allen Zimmerman? Quanto questa ha influito sulla scelta di chi ha voluto premiarlo con il Nobel?

In un certo senso si potrebbe dire che il Nobel è stato assegnato alla ‘voce’ più che all’opera poetica scritta su pagina. È stato assegnato al modo in cui quelle parole su pagina vengono pronunciate. Si potrà dire ‘bene’ o ‘male’, perché la voce di Dylan non è bella, non lo è mai stata, nessuno ha mai detto il contrario.

Però è innegabile che senza ‘quella’ voce, certi significati non sarebbero passati. C’erano delle cose che andavano dette e non si potevano dire con una voce educata, pulita, ben impostata. Dopo che le ha dette lui, tutte le altre voci hanno potuto ripeterle.

Magari ‘Blowin’ in the Wind’ avrebbe potuto sortire gli stessi effetti con qualsiasi voce, essendo un’ostia consacrata che emana la stessa benedizione al di là di chi la consacri. Il sacramento funziona comunque.
Ma nei primi anni ’60, canzoni come ‘Masters of War’, ‘The Times They Are A-Changin’ o ‘Like a Rolling Stone’ non avrebbero avuto lo stesso impatto se fossero state cantate “bene”, da una voce carina ed educata. Avevano bisogno di essere presentate al pubblico da qualcuno che avesse proprio quella voce, sgraziata e strafottente com’è, che sembra non aver paura di nessuno, nemmeno di se stessa. Una volta veicolato il ‘messaggio’, si poteva ascoltare quei significati da altre voci, con altri colori, altre intenzioni, altre atmosfere.
Ma prima c’era bisogno di qualcuno che facesse quel che oggi si fa quando, in tv, un volto ‘buca lo schermo’. Allora c’era bisogno di una voce che ‘bucasse il disco’, ed è proprio quello che ha fatto Dylan.

A questo proposito, possiamo ricordare quello che racconta Bruce Springsteen di quando, sedicenne, ascoltò per la prima volta ‘Like a rolling stone’. Era in macchina con sua madre e la radio mandò la rivoluzionaria canzone di Dylan. La donna, che pure apprezzava il rock, ascoltando la voce dell’artista, dice a suo figlio: ‘Questo proprio non sa cantare’.
Ma il giovane Bruce aveva le idee chiare e pensò: ‘Altroché se sa cantare, è questa la musica che voglio ascoltare’.

Springsteen disse anche che il colpo di rullante che apre ‘Like a rolling stone’ fu come il rumore di una porta della mente aperta con un calcio.

Quel colpo di rullante, che compare soltanto nella quarta incisione, durante la sessione di registrazione del pezzo, è veramente l’apertura di uno spazio non soltanto acustico ma anche di significato. È assolutamente vero.

Quando ringraziamo e salutiamo il prof. Carrera ci accorgiamo che abbiamo passato circa un’ora in sua compagnia; il tempo è letteralmente volato, le sue argomentazioni, la sua profonda conoscenza del genere ci hanno affascinato, inchiodandoci alle sue parole.

Non ci resta che segnalare, in chiusura di questo articolo, una sostanziosa novità in arrivo nelle librerie: Feltrinelli ha in pubblicazione una nuova edizione della raccolta dei testi di Dylan, suddivisa in tre volumi, con traduzioni e note del professor Carrera. I primi due volumi usciranno il 24 novembre e comprendono la produzione dylaniana che va dal 1961 al 1981; il terzo ed ultimo volume uscirà nell’aprile del 2017, con i testi che arrivano fino a ‘Tempest’, il disco di inediti più recente.

Disegno originale di Michele Ferigo

Print Friendly, PDF & Email

Autore Michele Ferigo

Michele Ferigo, napoletano, classe 1976, si occupa d’arte da sempre. È musicista, compositore, disegnatore e film-maker.